RUGGERO SAVINIO – Fuori e dentro l’ombra

di Marta Silenzi
ed. Centofiorini, luglio 2010
Inserto di catalogo per la mostra alla Galleria Centofiorini
25 luglio - 19 settembre 2010




Dopo aver letto oltre sette libri di e su Ruggero Savinio, mangiati uno dietro l’altro con l’ingordigia dei bulimici della carta stampata, ho quasi l’impressione che l’artista sia più scrittore che pittore, ma parola e pennello hanno un’unica radice tanto quanto un’unica iniziale e la scia che tracciano lascia gli stessi grumi di materia, parti dell’ombra.
Ruggero Savinio è ricordo. Mai trapassato ma vivificato in un ciclo continuo che torna a fissare punti cardine del suo percorso di uomo e di pittore. La zia Elettra, suo padre e suo zio pittori illustri  (“Dioscuri dell’arte italiana” del Novecento), Parigi, le stanze domestiche e la vita familiare, la malinconia, le coppie opposte alla base della sua poetica che tanto mi hanno richiamato alla mente Heinrich Wölfflin.
Ruggero Savinio discende da una stirpe di consapevoli e d’intellettuali che hanno attraversato l’arte venandola di riflessione, di ragionamento, per monitorare i propri passi e trovare, e vedere, il tracciato che unisce l’espressione figurativa – preponderante – a quella musicale, a quella teatrale, a quella scrittoria che le ha poi legate tutte e riversate nei libri. Per noi, che non chiedevamo che di seguirne i passi.
Ancora non ho conosciuto Ruggero Savinio, forse succederà tra qualche giorno, ma mi sembra di aver già stretto la mano a quel temperamento morbido eppure concentrato all’indentro: dentro il suo studio che non genera mai spazzatura; dentro la sua famiglia a quattro perfettamente equilibrata e ripartita (due maschi, due femmine); dentro le sue stanze con balcone, divano, quadro, tavolino; dentro le sue conversazioni e dentro la sua malinconia.


È “un artista che pensa” Savinio figlio, venando sempre il tutto di un sapore dolceamaro come il tempo che trascorre, e magari è questa stessa sensazione quella che si ritrova scura nei quadri, notturni, adombrati anche quando i colori sono squillanti e raffinati d’oro e d’azzurro. Ha imparato dal padre a mischiare il nero ai colori, e lo zio De Chirico gli ricorda di fare “scuro”, che “a schiarire c’è sempre tempo”, ma è personale questo medium che è una terra, un grembo che sgrava figure per poi tornare a tenerle, fatte della stessa materia, della stessa magia umana e terrigena che sembra fermare gli attimi, per poi riconvertirsi al buio.
La zia Elettra, sorella della madre, entrambe donne di teatro nell’alone della Duse, tiene sopra al letto, quel letto che cambia spesso posizione, un quadro che dà al giovane pittore “la percezione della pittura come un proliferare d’immagini da un’ombra crepuscolare, una presenza fragile pronta a riaffondare nel grembo notturno che l’ha generata”. E da lì forse principia il poetare intorno a questo magma che non può non essere formale ma che perde visibilmente contorni e cesello, questa pittura “che fa i conti con l’opaco”, questo mistero racchiuso nell’evocazione di qualcosa che oscilla tra ciò che è già stato, che non è mai stato o che forse non è ancora. L’ombra e in essa la figura, che, sulla scorta dell’amato Von Marées, ha un tempo proprio che non la dà per generata ma la genera alla fine di un cammino: “la figura compie un percorso dall’oscurità alla presenza, e del percorso aggrovigliato e difficile conserva indelebili tracce”.


Vaghezza, indolenza e indulgenza dei ricordi, dei conforti dati dagli ambienti e dal pensiero,  tracce di Grecia, di Egitto, di origini e di viaggi. Soprattutto quello che si conosce per via diretta. La propria visione, la propria percezione ma solo di ciò che si sa, che si comprende, con una tendenza al biografismo che non è autoreferenzialità, tutt’altro, l’atteggiamento è sempre schivo e sempre conserva il peso di una discendenza da cotanto padre, è soltanto che non si possono scindere le componenti che danno contenuto all’espressione, sarebbe come distinguere l’oggetto dal modo, l’interno dall’esterno, e in Ruggero Savinio questo non è mai possibile. Le dicotomie esistono ma non sono mai completamente l’una o l’altra, così abbiamo materia o segno, inizio o fine, precisione o dissolvenza, costruzione o rovina, ma quell’o di mezzo non è un aut aut disgiuntivo, bensì un vel che lascia spazio al limbo, all’indeterminatezza che crea possibilità. Anche quella tra materia e forma, in Ruggero Savinio non è un’opposizione ma un’approssimazione, un avvicinamento all’interno del quale sta la pittura: ne’ vuoti purismi materici, ne’ invadenze iconologiche, ma un sottile equilibrio tremulo che non rinuncia all’iletismo ne’ alla figurazione.
Ruggero Savinio dimora in quel campo docile ed ibrido che non ha bisogno di definizioni per essere riconosciuto, tanto è fatto della sostanza della sua esperienza, umorale, intellettuale, fisica ed emotiva.
Così è la pittura, così è la scrittura.
Che racconta. O indica il tracciato sul quale leggere il racconto della pittura.



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