Nino Ricci
L'opera in nero
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, novembre 2012
testo di presentazione della mostra omonima
Galleria Centofiorini, 9 dic 2012 - 13 gen 2013 



  studio Ricci
Un tramonto

uno squarcio acceso buca
la cupa nuvolaglia e i bassi
lembi calano sui monti

ora, le nubi e le creste
vestono le stesse ombre

così il valico viola
e il contrafforte turchino
sono un bruno mantello

l’ansiosa vista in cammino
in quell’oltre inatteso
si ferma, né aspetta il disvelo

guarda l’occhio di fronte
mutarsi in incandescenti colori

e muti fuochi celesti
aprirsi in varchi ulteriori
dentro la scura cortina

pare alla finestra la notte

Eugenio De Signoribus
ottobre 2012


Il 1982 – quando l’esplorazione morfologica di Nino Ricci era ancora impegnata in elaborazioni geometriche di volumi e moduli dominanti sopra sfondi tono su tono, sospesi nello spazio, sfaccettati nei pieni e nei vuoti, quasi indicando l’impressione di una rotazione – era l’anno in cui un fatto preciso s’insinuava nell’indagine cromatico-segnica di fine razionalismo ingegneristico-scenografico, per condurre l’artista al suo approdo figurale, come verso un’immagine totemica che non lo avrebbe più lasciato.
In precedenza c’era stata una suggestione naturalistica, mista a costruzioni di piani e linee che univano il segno ed una volontà grafica ad una sensibilità cromatica e poetico-giocosa alla Paul Klee (N.991 e N.998 del 1958, N.997 del 1959); c’era stato l’incontro con le haute pâte di Fautrier, la cui ispirazione di trama materica stratificata andava a sommarsi alla tavolozza di Ricci già scelta, già estremamente delicata e illuminata da tocchi di evanescenza, come se le tinte fossero dotate di luce propria, irradiata dietro gli effetti tattili di materiali granulosi come il semolino (N.999, N.1021, N. 1026, tutti del 1962). Poi, dagli anni ’70 aveva preso piede un discorso modulare, di elementi squadrati, linee diritte e taglienti, angoli e punte, regoli e cubi, prima compresi in perimetri e iscritti in ellissi di sfondi monocromi, poi produttori di ombre entro piani ed ambienti, sempre più diretti verso atmosfere metafisiche di stampo morandiano, ma più per la silenziosità gravida e per i toni dolci e freddi che non per una questione di natura morta mai affrontata veramente.
Nel 1982 era avvenuto qualcosa. Nino Ricci, in viaggio a Praga, città ancora sotto il regime comunista, visitava (su suggerimento del critico Flaminio Gualdoni) il cimitero ebraico, allora ancora difficilmente aperto al pubblico ma visibile da una finestra del vicino Museo delle arti decorative; un caso fortuito volle che quel giorno il cimitero mostrasse un’esposizione di disegni dei bambini provenienti dai lager nazisti, così il pittore poté accedere a quello scenario, oggi noto, di uno dei più antichi luoghi di culto ebraici d’Europa.
Il cimitero, fondato nel 1439, apparve a Ricci nel suggestivo e malinconico aspetto di unica area di sepoltura riservata agli ebrei di Praga che quindi avevano rimediato alla mancanza di spazio con la sovrapposizione delle tombe: alcuni punti del terreno erano e sono sovrapposti fino a nove strati di diverse sepolture, con un risultato di terra ammonticchiata e cosparsa di lapidi accostate, piantate con semplicità, secondo il culto aniconico ebraico, ma cariche di simbologia, in un luogo che l’occupazione tedesca aveva deciso di non distruggere “per lasciarlo a testimonianza di un popolo estinto”.
Ricci subì la fascinazione del cimitero ebraico non tanto a livello emotivo, quanto per la visione dei marmi e delle arenarie ancora oggi così stretti, come monoliti che si moltiplicano, si addossano e si appoggiano, si fanno corpo comune; le cuspidi e i tagli netti delle pietre che coprivano e ombreggiavano somigliavano tanto alle sue composizioni ma prive di ordine e razionalismo: le sovrapposizioni avevano infatti provocato inclinazioni, dissesti e punti d’appoggio su cui poi si era depositato il tempo conferendo al tutto un alone di rovina – seppur mortuaria – decisamente carica di vissuto e di storia.
La folgorazione della visione non è stata subito messa a fuoco ma nell’andare della sua indagine pittorica e compositiva le orchestrazioni figurali ricciane hanno iniziato a farsi meno rigide e le forme hanno preso l’aspetto di pietre tagliate per l’altezza, di rocce, menhir sagomati, approssimati, ripetuti, con grande potenziale per lo studio di ombre e chiaroscuri che è forse la componente principale delle opere dell’artista maceratese. La trasformazione delle forme geometriche in rovine-lapidi è arrivata autonoma e col tempo, l’autocoscienza è giunta a posteriori, per poi disperdersi e continuare una ricerca indipendente che tuttora si spinge oltre il significato della forma.
Così le opere degli anni Novanta sono gruppi scultorei dipinti che conservano una qualità naturalistica di erosione, inscenati entro palchi silenziosi e intensamente atmosferici, perché pulviscolare è la tessitura pittorica (con un tremolio del colore alla Seurat pur senza arrivare al puntinismo) e naturali sono i tagli di luce talvolta laterali che allungano le ombre e rafforzano l’effetto di bassorilievo e quindi di classicità dell’immagine.
A questo risultato Ricci arriva anche con lo studio, effettivamente plastico, di creazioni in gesso e in cartapesta che lo aiutano nell’individuazione del sottile e affascinante gioco chiaroscurale della sua pittura, soprattutto quando reso nella gamma, a lui cara, dei colori pastello. I rosa, gli amaranto, i pervinca, sono tinte spiegate e disposte sulle sagome-rovine come teli e sottoposte a continue delicatissime velature, indagate nelle più estreme gradazioni tonali, su sfondi a contrasto o più spesso accordati, conferendo al suo lavoro una caratura classica e modernissima al contempo.
Ciò che stupisce è la raffinatezza, l’eleganza tenue d’imponenza culturale e levità poetica perfettamente corrispondenti alla mitezza caratteriale del pittore, ai suoi gesti attenti e cadenzati, così come le tinte cerulee richiamano la bella trasparenza del suo sguardo.
Le cartapeste segnalano anche la profonda conoscenza delle carte da parte di Nino Ricci, conoscenza e amore corrisposto, perché la sua pittura sembra nata per legarsi intensamente alla tramatura della carta fatta a mano, con risultati magnifici nelle tempere e negli acquerelli.
Non è stata casuale la sua lunga collaborazione con le cartiere di Fabriano, ma certo il suo rapporto con la carta è iniziato molto prima, quando ancora studente è stato introdotto alle tecniche incisorie presso la Scuola del Libro di Urbino, sotto l’egida di Mainini, Castellani e Bruscaglia.
Ciò che avviene in termini di ombreggiatura e distribuzione chiaroscurale nei dipinti, attraverso il colore, non si disperde, anzi, aumenta ovviamente d’intensità nelle incisioni, dove il bianco e nero permette una lettura evidente di questo elemento fondamentale dell’opera ricciana.
Le acqueforti e le acquetinte sono espressioni che l’artista lega a numerose pubblicazioni, come commento immaginifico di produzioni poetiche ad esempio di Eugenio De Signoribus o Leonardo Sinisgalli, talvolta spingendosi fino alle tecniche meno esplorate della maniera a matita (una variante della vernice molle) o della stampa a secco, con esiti di rilievo sorprendentemente ricercati.
Quindi, tra tanto interminabile colore, di una qualità quasi femminile tanta è la sua delicatezza, ecco il nero. Tuttavia persino il nero è lieve nei lavori di Nino Ricci, le sue sfumature, le digradazioni sono pacate e sublimi, si mostrano docili e sagge come i suoi blocchi erosi o gli iceberg ghiacciati che stanno da tempo immemore e sanno raccontare storie stratificate di luci ed ombre trascorrenti e variabili all’infinito.
“Il nero è uscito fuori all’improvviso” dice il pittore parlando dei suoi inediti a carboncino degli ultimi tempi, e senza che ci sia stata un’interruzione del colore, perché la sua casa-atelier vede più opere contemporaneamente al cavalletto: gli oli rosati di varie dimensioni e questa nuova produzione di carboni su carta pregiata, lavorati, ritagliati e poi applicati a nuovi supporti cartacei. La tramatura è spessa, granulosa, e l’uso sovrapposto di carbone naturale, pasta di polvere di carbone e carbone vegetale spolverato a pennello per riempire i vuoti della grana, conferiscono alle sagome un carattere nuovo e antico al contempo, prezioso, profondo.
Il nero dunque arriva quasi inconscio eppure l’impressione è che ci siano sempre stati quei passaggi d’ombra, quelle dimensioni notturne non prive di luminosità lunare e splendente; essi appaiono come un primordio che finalmente esce allo scoperto dopo l’attesa di questa placida maturità, e giunge a prendere la scena con solenne e silente importanza, ma senza mai perdere la propria gentilezza.





 studio Ricci

Galleria Centofiorini










Renzo Ferrari 
rosso d'autore
di Marta Silenzi
Galleria d'Arte La Colomba 
Lugano-Viganello 
10 novembre-9 dicembre 2012


“Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua verde, l’aria
gialla e il fuoco è rosso, poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena
riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e
giudica secondo quello.”

Paracelso





Le opere di Renzo Ferrari sono da oltre cinque decenni un’autentica fiammata.
Si tratta di un fuoco che mantiene un nucleo di ghiaccio – forse per via dei natali ticinesi che lo collegano alle coordinate nordiche o forse per una lucidità innata che nasconde un occhio critico acuto dentro aspetti grotteschi e generose eccentricità –, é un falò delle vanità che spinge nel calderone colori terrosi per partorire (con dolore) sintesi di realtà spietata, masse e volumi da cui salgono prima gli occhi, poi le sagome, sempre più numerose, di un’umanità deformata dal carico psico-empatico che è chiamata a fronteggiare nel quotidiano, schiacciata dal peso simbolico di monitor e televisori che dominano il pianeta con memoria orwelliana.
L’individualismo, le forze sciamiche della natura, le teste di cardo come ritratti spinosi, gli angoli di periferia, abitati da tossici, dai coatti e da un pullulare compresso di anime, ombre spersonalizzate in movimento, contorni catatonici che a volte accolgono un guizzo d’erotismo, altre diventano riflesso di un accadimento di cronaca urbana, si stagliano tutti sui fondi bruciati di tavolozze accese, sui gialli, sui verdi brunastri, i vinaccia e le terre, fino agli slanci più divertiti e recenti dei rossi, solcati da scritte, rallegrati da un misto collage che rende i lavori dell’artista opere d’urto mai banali.
Renzo Ferrari, nella sua opera di rifigurazione dell’immagine, non rinnega un ductus pastoso d’estrazione informale, ma lo coniuga abilmente a motivi ritornanti che uniscono l’idea di un ambiente a quella di figure che lo abitano, siano esse volti deformi e occhiuti che insinuano gli sguardi e trasmettono un’angoscia grottesca, o giganti-macchina bullonati dalle teste squadrate e gli occhi fissi, o ancora silhouette nere dai profili colati come vernice di graffiti sui muri, in ogni caso non esiste distinzione netta tra elemento figurale e sfondo: il colore stende, delinea e impasta e poi si lascia scrivere e graffiare, senza però che ci sia mai un compiacimento nella materia, soltanto sostrato a favore del segno-colore, fino a concedersi, ultimamente, a collage di tema erbario sui quali comunque domina l’impeto, la vampa sempre accesa, l’incendio delle violente tavolozze.
Il colore è il primo attore del racconto ferrariano. Il dramma dell’uomo – isolato in ripetute terre d’esilio – è affidato in primo luogo al rogo dell’impianto cromatico (certo senza dimenticare la forza tagliente del tratto che emerge con vigore anche nelle carte e nelle incisioni), rovente pure nei verdi e negli azzurri, spesso giocato sugli ocra e sulle tonalità ambrate, qualche volta buio e fosco con lampi bianchi, ma soprattutto organizzato a contrasto sui rossi.
Il tuffo di Ferrari nelle tinte sanguigne avviene non prima dei tardi anni Ottanta. In precedenza l’ibridazione segnica e figurale coinvolge anche quella cromatica e, sebbene il colore primario faccia inevitabilmente la sua comparsa, è successivamente che i toni si fanno più emotivi, più espressionisti, dati in larghe campiture sugli sfondi, stesi a contrasto, in un conflitto cromatico – dichiarazione di quello umano – in cui primeggiano intensi carminio e profondi granata, in dicotomia coi grigi e con le gamme aranciate, talvolta scendendo a farinosi bordeaux.
Negli ultimi due decenni la luce sembra aumentata e Renzo Ferrari si spinge avanti, incalza e pressa sulla scala dei rossi sempre più ardenti, quasi aggettanti, in una brace che accoglie le scritte e il collage, rinnova i motifs, orchestrando con divertita sapienza le svariate componenti della sua ricerca, restituendo immagini febbrilmente passionali, siano esse visionarie insonnie immerse nel giallo, odissee graffite in colate purpuree, radici o mandragole in nero che esibiscono le spine rosse di questa difficile società, dove ogni giorno è una nuova follia in un calendario feriale.









(podcast: puntata del 21 novembre, 21 min e 24)



Desco Bianco
una cena dipinta

di Marta Silenzi
presentazione mostra personale di Pg
Galleria Comunale Vincenzo Foresi Arte Contemporanea
Civitanova Marche
9-23 settembre 2012
(ampliamento testo Il gusto di Pg)

È un patto segreto tra gli aromi, un accordo clandestino, una congiura di sapori inscenata per via di spatola e pennello ai danni del fruitore che, incauto lungo un percorso sensoriale ad alta possibilità di combustione, cade irretito nel calderone saporoso e tonale del gusto come lo sente Pg. 

Ad un ipotetico desco bianco, cui si accede da una porta che è l’ingresso surreale per l’ambiente del sapore, dentro stoviglie e bricchi immacolati – come fossero contenitori neutri e cerosi di un variopinto contenuto – s’infiamma l’universo culinario, distinto in picchi densi e sostanziosi, furie inebrianti, vapori, atmosfere che fanno del gusto un senso privilegiato, composto in percentuali anche da tutti gli altri: scortato dalla vista invogliante, spezzato dalle mani che portano il cibo alla bocca, legato indissolubilmente ai profumi, agli odori e capace di provocare squilli e tintinnii nelle orecchie fino ad arrivare al cervello, nel capriccio di un’apoteosi sensoriale. 
L’ondata sapida parte dalle labbra, sulla lingua, e si scioglie attorno alle papille gustative che crescono come fiammelle nutrite di tinte e gradazioni cibarie, si diramano in succose paste alte a trattenere il piacere dei vari piatti dentro cavità, discese e avvallamenti materici, in un grumo rosso ciliegia, lungo una scia dorata di sciroppo d’acero, nello spazio quadruplicato del supporto. L’andirivieni della degustazione è una tortura estatica cui corrisponde l’agitazione della superficie tesa a cogliere miriadi di successioni tonali, tante quante sono le possibili variazioni di sapore durante la masticazione, fino all’atto eccelso e conclusivo del deglutire. 
Il tema intrinseco dell’eros, dell’afrodisiaco è associato alle gustosità saline, nella veste infuocata e danzante di aragoste afrodite, il cui corpo di crostaceo è appena accennato in un angolo del massoso ciclone informale che è la costante scelta base della pittrice; le due versioni mostrano il corposo interno bianco del pesce reale a contrasto con la scocca lucida e attraente, a restituire morbidezze interne e scabrosità esteriori del più semplice e prezioso dei sapori marini, giusto un po’ di nero a sottolineare profili e spingere tensioni. 
Sul lato opposto del focoso artropode, Pg allunga una discesa di sale (acquatico) dal carattere lunare. Sinuosità e perlescenze marine, vibrazioni coralline, squamature argentee emergono ad ondate nell’idea magari di un’orata in crosta di sale o di un branzino al cartoccio, lasciando che permanga intorno il ricordo di pacifici isolotti esotici, chiassose pescherie di paese o vigorose profondità mediterranee. 
Robusta ed acerba s’inserisce sul palato, ballando sulle gengive e pizzicando nella gola, l’aspra presenza delle scorze di limone in ascendenze e freschezze di tonalità verde cinabro: una pulizia della bocca affidata ai giallo-verdi che scuriscono agli estremi in corrispondenza del retrogusto amaro ed acre dell’agrume, spingendosi a volte però fino ad assaggi biancastri, coniugazioni con altre pietanze, forse un po’ di zucchero di limonata. 
La cena è accompagnata da un classico vino bianco, una tela totalmente a spatola che accosta taches ambrate, paglierine, dorate, affidando alla fluidità del colore ad olio la resa della trasparenza, mirando ad evocare il liquido e la sua perfetta esaltazione del cibo. 
È poi tempo di dessert, di voluttuosi cedimenti. 
Predisposto al rapimento il riguardante arriva al vertice del desiderio risvegliato dalle glasse al cioccolato pasticciate ed aromatizzate tra nocciole e petali di rosa, e crede di morire di sapore davanti alle paste stemperate sulla tela, annodate e liberate in accenti purpurei, succose da non riuscire a trattenere la salivazione profumata, sensuali da sciogliere le inibizioni e spingere ad affondi di mani oltre che d’occhi nella superficie materica fin quasi al bassorilievo. 
Il pasto termina con il consueto caffè, ma bianco, cercato nelle sfumature dell’aroma, nelle scie di vapore denso e odoroso, tornando al candore di base e al polimaterico come filo conduttore di questo viaggio pittorico-gastronomico, dentro le tele incorniciate, piccole come due tazzine, come due espressi profumati precorsi da un sentore nell’aria. 
Resta un momento ancora da gustare. 
È l’ora della condivisione o piuttosto del raccoglimento. È una concessione che funge da prolungamento della piacevole esperienza, quando a radunare tutti gli aromi assaporati si indugia nella scelta di una chiusura, prima del sipario sull’ultimo atto. 
L’animo, calmato e disteso, scivola in trasparenze e velature dalle nuances tenui e fiorite di filtri e liquori (distillati), come a completare l’incanto di una malia cha ha deciso di subire consenziente; Pg procede nello spazio della tela per spatolature chighiniane (come per il vino), delicate come sovrapposizioni di elisir di sottobosco: grappa al mirtillo, acquavite alle more, sidro, siero di prugna, vinaccia . . . A fine percorso dunque ci si desta dall’incantesimo illusivo di questa pittura che riesce attraverso un linguaggio immaginifico – anche se essenzialmente aniconico – a restituire percezioni non visive, e si deve comprendere e tenere a mente la particolare e non semplice sottigliezza di poter intendere e tradurre nel codice pittorico questioni astratte, sensazioni fisiche assolutamente non figurative. È un cosmo ardente, poetico e sensorio quello di Pg, capace di riempire gli occhi e di lasciarci affamati.










inaugurazione mostra 
Desco Bianco - una cena dipinta
opere Pg
9 settembre 2012:











Paesaggi all'acquaforte
Bartolini Ciarrocchi Morandi
di Marta Silenzi
testo in catalogo della mostra omonima
Galleria Centofiorini
14 luglio - 31 agosto 2012
(*pubblicato anche nel catalogo delle mostre di Popsophia 2012, p.43)


Ci sono terre ricche di panorami, vedute di campagna, scorci paesaggistici genuini, atemporali, che non si confondono con discorsi futuristici di pannelli solari ed energie rinnovabili, che mantengono un’aura d’Arcadia, evocano i calori diurni delle stagioni, gli odori in salita dai terreni, i suoni e i mormorii della natura diffusi dentro silenzi infiniti e distanze profondissime. Ci sono immersioni ancora possibili in queste lande dove l’orario continua a scorrere secondo ritmi antichi, luoghi puri dove ritrovare la calma e piccoli prodigi dimenticati dietro le frenesie cittadine. L’Italia centrale preserva svariati percorsi agresti di vita rurale in cui recuperare sane sensazioni bucoliche e solipsismi emozionali, lunghi cammini per nuovi situazionisti, voli improvvisi di selvaggina e radure e filari d’uva a perdita d’occhio e a perdita d’identità.
Lo stare all’aria aperta è connaturato all’uomo, influisce sugli umori, amplifica il suo sentire, lo apre a dialoghi interiori in grado di elevare le percezioni, lo porta a cogliere accenti poetici tanto alti da renderlo strumento e cassa di risonanza di questo riverberare d’echi e scintillii della natura: ecco la ragione della scelta del plein air, quel calarsi nella terra e tra le piante di pittori e poeti, dagli Impressionisti a Walt Whitman, dai Macchiaioli a Gabriele D’Annunzio.
Se poi si passa all’incisione, a questa tecnica complessa, che prevede necessariamente passaggi di realizzazione in studio ma che lascia alla mano dell’artista il potere di afferrare l’istante in essenzialità di luce e di linee, le cose si fanno magnifiche ed intime.
Molti maestri si cimentano nell’incisione, scegliendo via via, a seconda dei risultati cui tendono, il rilievo delle matrici in legno – le xilografie, dal segno spesso e i neri intensi –, il piano delle pietre le litografie, dalla granulosità tipica e il senso chiaroscurale diffuso – o le tecniche in cavo su metallo – le incisioni dirette, con le spine del bulino o della puntasecca, graffianti, dettagliate, da cesellatori; o quelle indirette: l’acquaforte, l’acquatinta, la vernice molle.
L’acquaforte è tra le più antiche e le più amate. Il nome lo prende dall’acido nitrico, che ha il compito di scavare i segni tracciati dall’artista sullo strato di cera della lastra di rame o di zinco. Già da questo si comprende quanto sia complicato il procedimento, quanti parametri debbano essere provati e valutati dall’incisore prima ancora di incavare quel disegno che andrà inchiostrato e stampato in controparte. L’occhio coglie l’immagine, la mano la traduce in segni ed essenzialità “a togliere” sul supporto, in un disegno al contrario, poi immerso nella morsura dell’acido che, con le dovute tempistiche, allargherà e scaverà quei tratti che in seguito riceveranno l’inchiostro e attenderanno la pressione del torchio per realizzare la stampa.
Molti pensano alle incisioni come ad un’arte minore. Alcuni la confondono addirittura con l’immagine tipografica. Il problema lo crea il pensiero della riproducibilità, la tiratura: il fatto che possano esserci più esemplari insinua l’idea che non siano opere originali, e certo ci sono stati casi clamorosi di fogli firmati in precedenza su cui sono state applicate stampe non autentiche, ma qui, e nella mostra che vado a presentare, parliamo di una squisita ricerca di purezza e perfezione del disegno perseguita con la più antica tecnica calcografica, che per eccellenza genera opere tra le più raffinate e di cui le Marche sono punto nevralgico grazie alla presenza della rinomata Scuola del Libro di Urbino.
Tra gli incisori se ne sono scelti tre dei più importanti, tra le loro incisioni quelle di soggetto paesaggistico, per celebrare il ricordo di luoghi amati, per mettere a confronto gli stili e la crescita incisoria e per mostrare quanto vissuto e sensibilità possono celarsi dietro segni, morsure e stampe.
Bartolini e Morandi condividono lo stesso periodo storico. Bartolini e Ciarrocchi le origini marchigiane. Ciarrocchi alla Calcografia Nazionale di Roma si trova a stampare le matrici degli altri due grandi maestri suoi predecessori. I loro nomi s’intrecciano e così la loro arte.
Luigi Bartolini (Cupramontana 1892 - Roma 1963), temperamento impetuoso, creatività multiforme e inarrestabile, è un artista sanguigno, libero da ogni vincolo, che preserva una razionalità compositiva entro la quale però si muove spontaneo, cogliendo l’attimo della parola scritta come della tinta scelta, e così pure del segno impresso: se ne va nelle zone di campagna con le lastre sottilissime nella sacca per usarle una dopo l’altra in progressione, anche al rovescio, battendosi “come un cavaliere di ventura, disegnando”, fino ad ottenere la figurazione migliore, da completare in studio con una morsura incauta, nella quale spesso brucia le dita, per rifinire la composizione con la punta delle forbici o del compasso (dice: “Io ho combattuto sul Carso e sul Piave: mi sembra che costi più un’acquaforte che una battaglia: ossia che sia più tempestoso incidere un’acquaforte che partecipare ad un’azione di guerra”).
È un perfezionista che se ne infischia della metodologia e persegue la sua perfezione, un eterodosso della tecnica che quando incide vede “le cose angelicarsi”, si fa prendere dalla febbre; è un passionale perso nell’incanto della sua visione di boschi, di case e di fonti con le lavandaie, paesaggi semplici e sentimenti forti, resi col guizzo del tratto, sempre più rado, schizzato, vibrante e nervoso, con grandi respiri di bianco e indagini di luce: una Strada d’Ancona del ’42 ci concede appena la vista delle linee collinari e qualche albero nel mezzo, documento della conquista bartoliniana di questa “maniera bionda” che in prove precedenti è invece detta “nera”, col tratteggio più insistito, il chiaroscuro che sottolinea i profili di città alte sui poggi e scurisce i tetti della provincia, addensa le ombre tra gli alberi o nelle cavità dei loggiati con effetti di macchia tendenti al pittorialismo (Fonte San Giorgio, 1930; Camerino Marche, 1926).
Gli si rivendica un parentela con la tradizione naturalista italiana dell’Ottocento e uno sguardo alle stampe di Rembrandt e Goya forse più evidente nelle nature morte, ad ogni modo l’occhio sensibile del maestro coglie e ricrea sulle lastre – incise in quantità prodigiose ma stampate in tirature molto limitate – scenari intimi di una vita tanto quotidiana da farsi poesia, con il gusto per il dettaglio ma non per la descrizione che cede sempre il passo allo sguardo d’insieme, alla linea sintetica e vigorosa, oscillante quasi tra espressionismo e non-finito.
Le acqueforti di Bartolini presentate in mostra vanno dal 1921 al ’42 e indicano come l’innata sapienza compositiva, che rifiuta la meditazione sul disegno, passi ad ariosità e sintetismi sempre maggiori, coniugando tenerezze ed asperità del linguaggio, e rimanendo tuttavia costante nell’affetto per il paesaggio marchigiano, un po’ ricordato un po’ immaginato anche a distanza, sempre vagheggiato con ardore e insieme cura affettiva, entro i due estremi emozionali caratteristici di questo artista di rara qualità ed originalità, uno degli “spiriti bizzarri in tempi inquieti” di cui parla Roberto Longhi.
Di pari intensità ma opposta resa incisoria è la sensibilità di Giorgio Morandi (Bologna 1890-1964).
Gli anni sono gli stessi, l’Italia è sempre quella centrale, ma ciò che è furore ed impeto incontenibile in Bartolini, è inquietudine, calma imposta e vibrante in Morandi; ciò che è eccitazione subitanea e segno nervoso nell’uno, è meditazione, studio, trascorrenza temporale nell’altro. La spropositata produzione di acqueforti di Luigi Bartolini – pur con la consapevolezza che “ per inciderne dodici buone ne ho incise trecento, quattrocento cattive” – contrasta con il corpus rigorosamente selezionato dal maestro bolognese: appena 117 lastre, con qualche aggiunta per un ritrovamento post mortem, che testimoniano quanto l’artista sia concentrato sul fare, sul lavoro artistico, sulla ricerca dell’equilibrio compositivo entro cui si dispiega il tremolio tonale; anche Morandi guarda a Rembrandt, come guarda al Parmigianino, Barocci, Annibale Carracci, ma con indifferenza verso i loro soggetti, riservando invece tutta l’attenzione al loro modo di condurre l’acquaforte.
Incisione e pittura sono parallele, anzi spesso la prima è sperimentale in termini di chiaroscuro in funzione della seconda ma non per questo condotta con meno attenzione, ed è evidente come tutta l’opera morandiana sia di contenuto ermetico, con la scelta di soggetti umili che nella loro intimità silenziosa di estrazione metafisica diventano infinitamente poetici ed universali. Vale per le note nature morte come anche per i paesaggi: l’azione di trasfigurazione del reale è la stessa, quell’aura atemporale conferita dal cadere della luce sulle superfici, dal quietarsi dei suoni nelle campagne abitate dai venti ma non dagli uomini, in ore del giorno che sembrano attese di un accadimento.
Dopo le prime prove incerte del ’13, del ’15, dagli anni Venti si rivela tutta la qualità della tecnica morandiana, l’importanza non del singolo segno ma dell’insieme, del reticolo attraverso il quale si studia tutta la scala dei grigi, fino al nero più polveroso che oppone il suo effetto tattile al bianco specchiato di intonaci, cieli o stradine sterrate: Paesaggio (Casa a Grizzana) o Paesaggio con il grande pioppo sono espressioni altissime del 1927, cioè l’aprirsi di una stagione feconda che va a comporre i tre quarti dell’intero corpus incisorio; Morandi padroneggia l’acquaforte e ne fa un mezzo incondizionato di espressione superiore. L’intreccio è una trama, una tessitura serica di ombre, fatta di una precisione affidata al variare delle morsure in acido che regolano il segno; il paesaggio è costruito, meditato tra eccedenze di tratteggi neri, in cespugli, tetti e chiome di cipressi, ed azzeramenti che sono esplosioni di luce sulle facciate delle case solide e cubiche.
L’orchestrazione dell’immagine è mentale, lo testimonia il fatto che molte lastre hanno uno o pochi stati, raramente ci sono interventi di completamento sostanziali – invece tipici di Bartolini – e comunque il ritocco è impercettibile. Da questo rigore dipendono le setosità dei grigi, le variazioni tonali sottili e preziose, quell’equilibrio e quel conforto dato dalla progressione dei piani per parallelismi che muovono le campagne e digradano in profondità contro i cieli assolati (Paesaggio di Grizzana, 1932).
Gli stampatori di Morandi trovano le sue lastre “ideali, perché tutto è già sul rame” ed è un’affermazione indicativa di quella metodologia esigente, di quel controllo, di quell’esclusione di casualità che sanno custodire e rivelare come nient’altro un prodigio segreto, di finissima percezione e indiscutibile valore poetico.
Arnoldo Ciarrocchi (Civitanova Alta 1916 – 2004), l’artista che vuole apprendere l’incisione “con l’impegno di imparare a lavorare artigianalmente” – e Luigi Bartolini lo ricorda infatti “in pannella e camice turchino, da onesto operaio” –, è “l’erede ideale di quello splendido talento che raramente capita d’incontrare e che si è già rivelato in Morandi e Bartolini”, dicono Luzi e Baiocco nel 1981, alla Galleria Centofiorini, in apertura della mostra con ritratti, nature morte e altri soggetti figurativi dei tre incisori.
Quest’anno i suoi paesaggi in mostra aprono col 1940: passate già le “lastre nere” ed il periodo urbinate quando, allievo di Castellani, apprende il medium dell’acquaforte, questo è il momento in cui lavora come torcoliere alla Calcografia Nazionale di Roma e studia i segreti dei grandi incisori passando dal fine segno pittorialista alla Bartolini, fatto di cespugli, figure e brevi accenni delle “lastre bianche” (Ragazze all’acqua acetosa, 1940; Paesaggio con una casa ed un pagliaio, 1947; Alberi lungo il Chienti, 1947), alla cosiddetta “maglia larga” di memoria morandiana, che cerca una costruzione più solida, il segno a rete con gli incroci radi, le case fatte di porzioni bianche dentro un ricco gioco chiaroscurale. Gli si rimprovera l’aver abbandonato lo stile di fine anni Trenta e del noto Paesaggio col pagliaio per seguire le ricerche tonali del maestro bolognese, ma sagacemente Ciarrocchi risponde che “colui che sa leggere è capace di recuperare sotto questa rete ghiaccia quell’umore sottile che c’era nelle mie stampine del ‘38”, e la differenza con Morandi la si vede nel segno incapace di trattenersi saldo, rivelatore di un temperamento più sciolto, che dilata dove Morandi rinserra, che attraversa la fase del tratteggio e dell’incrocio per approdare in seguito al “segno grosso”, molto incisivo, e molto rappresentativo del tratto ciarrocchiano, quello che si ravvisa anche nei dipinti, anche negli acquarelli, fino alla fine.
Dallo studio di Piranesi deriva la costruzione prospettica sapiente – a lungo esercitata nelle vedutine di Roma –, le immagini equilibrate, i contrasti distribuiti per esaltare le singole parti e vivificare il tutto in una compenetrazione di natura e figure date per segni sottili. L’intenso tratteggio poi allenta e gradualmente si tinge di un’ariosa serenità paesaggistica, che attraversa la “maglia larga” delle case di conoscenti e familiari sparse nei terreni asolani (La casa dell’amica straniera, La casa dell’uomo solo, La casa della scrittrice di racconti brevi, 1956, La casa di Rinalda, La casa del veterinario, La casa delle figlie di Crescentina, 1958 ecc.) per affrancarsi più avanti trionfalmente nella scarna schiettezza di linee incise a punta, di segni che nascono sottili e si fanno grossi, come in una china che scrive una calligrafia col pennino. Sono gli anni in cui il paesaggio marchigiano e romano si fondono in una sorta di recupero immaginativo, con le colline dell’Asola sublimate nell’Acqua Acetosa in continui rimandi, “sono declivi e case appena accennate, spunti confinanti in un riquadro a significare una tensione di compiutezza, di definizione, bisogno di luce e desiderio del suo possesso” (Gastone Mosci), sono piani essenziali, disposti di scorcio verso lo sfondo, creati da spezzate e da una piacevole poetica dei rami . Il segno sintetico e tagliente risente sicuramente di quella vena ironica riservata a certi ritratti filiformi del padre Aurelio, ispirati forse dallo studio di Daumier, ma successivamente, specie nei paesaggi, s’ispessisce e si carica di un volume rapido, improvviso, che cerca contrasti crudi tra bianco e nero – solo a volte intiepiditi dall’intervento atmosferico dell’acquatinta o dall’uso del fondino – e che richiama quasi il suono prodotto dalle punte sul rame o sullo zinco delle lastre durante l’atto dell’incisione.
I luoghi cari, la vita all’aria aperta, la poesia delle ‘piccole cose’ di retaggio pascoliniano, sono le componenti dolci e vigorose dell’ “asolitudine” di Ciarrocchi, ma sono anche aspetti comuni ai tre incisori di questa mostra che, nel dare uno sguardo alla tecnica dei grandi del passato, trovano se stessi, il loro tempo, la propria cifra incontaminata, e danno origine a una nuova classicità.






Artisti e gallerie – artisti in galleria
di Marta Silenzi
testo in catalogo della mostra  collettiva "Artisti in galleria - un'idea per osare"
a cura di Franco Morresi
Sala Arte Contemporanea Vincenzo Foresi
Civitanova Marche
24 marzo - 15 aprile 2012

Solitamente la fruizione artistica consiste nel recarsi in un luogo dove si espongono o si conservano opere d’arte per poterle guardare nella loro compiutezza.
Questi luoghi-contenitori, di collezioni permanenti o mostre temporanee, prendono il nome di musei, o più spesso di gallerie. Il termine viene dal francese e va ad identificare una sorta di lungo passaggio coperto in un edificio abitualmente adibito alle passeggiate e quindi ornato di quadri, statuaria e oggetti pregiati con lo scopo di allietarle. Oggi la galleria d’arte è anche quella che, oltre ad esporre, vende le opere e si occupa maggiormente di arte contemporanea, salvo il caso in cui si tratti di una galleria antiquaria.
Comunque in ognuno di questi spazi l’opera che andiamo ad ammirare è finita, cioè l’artista ha completato la sua ricerca e lavorazione riguardo quello specifico manufatto e noi ci troviamo di fronte all’atto finale, al risultato, all’esito ultimo di un processo di realizzazione di cui non sappiamo nulla o, pur conoscendolo, non vediamo nulla, non nel suo svolgimento.
Negli ultimi cinque anni, dietro l’input e l’organizzazione del maestro Franco Morresi, alcuni giovani artisti locali rivoluzionano tanto il concetto di ‘opera finita’ quanto quello di ‘contenitore espositivo’, osando mostrarsi nei loro work in progress e adottando come teatro un particolare sito cittadino, una piccola piazza, un popolare centro di ritrovo, coperto ma non al chiuso, che prende appunto il nome di galleria.
L’opera d’arte diventa allora performance. Dall’ideazione alla scansione delle varie fasi lavorative. Dalla preparazione di una tela alla scelta della tavolozza, dal disegno preparatorio alla miscela dei materiali, dalla modellazione di un ritratto plastico all’elaborazione di un’istallazione, dalla figurazione pulp della street art al gioco armonico del body painting.
Dieci artisti in cinque anni si espongono assieme alle loro realizzazioni, mostrando cosa anima il processo espressivo, come si traduce in termini artistici un dato emotivo, come diventa oggetto un pensiero e di cosa si carica lungo la strada, mettendo alla ribalta – sotto gli occhi di un pubblico attivo e brulicante tra le opere, nate quindi nel pieno vitale di serate estive, tra la gente, e non nel chiuso favorevole di un atelier – stralci di ricerche individuali, intimità vulnerabili, energico esibizionismo e differenti personalità in modo che i fruitori possano accedere anche alle zone grigie, agli spazi intermedi, alle incertezze e ai pentimenti, alla spinta infervorata del momento benevolo come all’azzeramento in cui l’immagine non sale, l’idea non si concede, non trova la forma.
Tele e carte accolgono gesti, mosse, evoluzioni di pennello, spargendo odore di colore, costruendo paesaggi di pittura anoggettuale, conservando il valore segnico affidato anche alle installazioni che prendono spazio, sforzano la logica, spingono e annodano (Antonio Del Gatto); o evocando dalle profondità del biancore nuances svanite e disciolte, come lentamente assorbite dalla superficie in moduli che, con grazia, compenetrano e si fanno largo (Elena Bettucci); e concedendosi anche ad attimi di art fusion dal gusto metropolitano, a più mani sulla tela, tra il murales di periferia e l’action più “dekooninghiana”. Prestazioni metodologiche animano volti, dalle fattezze dei presenti presi a modello, dentro una massa di argilla inerte, chiamando dal nulla le fisionomie sui precisi tocchi delle dita, calibrando carezze e incidendo pressioni (Enrico Angelini). Esili disegni a matita cedono la loro leggerezza alla sagacia, all’immediatezza contenutistica dello street art style, dai contorni netti, le campiture acriliche pure e compatte, il messaggio pesante come una sentenza mascherata d’ironia (Giulio Vesprini). Talvolta spuntano cartoline dal sapore anni ’50 ed il gusto del dettaglio che ben presto lascia il pennello per l’ago, quello da cucito, volgendosi al femminile dei soggetti oltre che dei particolari (Martina Pagnanini); un femmineo declinato poi quasi in chiave tatoo, steso con le mani e sposato all’andamento circolare, simbolico, ancestrale, come un rituale propiziatorio fatto di neri robusti, di rossi, di ocra (Laura Martellini). Le mani si sporcano con fondi di bassorilievo spolverati e riempiti di forme abbondanti e linee morbide dal sapore monumentale, valide anche nei volumi scultorei in ceramica raku ispirati a misteri generativi e cosmogonie (Daniela Vito), il tutto opposto ad un dripping compositivo e nebuloso, rinnovato nell’uso di materiali naturali, tra Pollock e il Dubuffet delle Texturologies (Paolo Bernacchia). La sapienza tecnica infine sbalza un rilievo narrativo e solenne della decollazione del santo patrono (Girio Marsili), lavoro notevole, coraggiosamente in contrasto con la vivezza trompe l’oeil del body painting più decorativo, tra mannequins e sirénes (Ilaria Pellerito), dandoci prova degli estremi dell’arte, delle vaste direzioni in cui il linguaggio espressivo può spingersi e come riesce a farlo, con tutta la freschezza e l’impeto che un drappello di giovani artisti ci consegna nelle mani e tra gli occhi.





 ph. di alcune delle opere in mostra


PG : una bella tensione 
di Marta Silenzi 




Senza titolo, 2006 -  Senza titolo, 2006 

Cosa significa sentire il colore? Cosa significa muovere la tela, spingere le masse dentro incontri ed ancoraggi, fare strato, aggiungere, fino all’approdo di un qualcosa che non si spiega ma è tangibile ed arriva attraverso la vista? PG sa cosa significa.
Si nasconde dietro due iniziali, semplice, senza i fronzoli che di solito abbelliscono l’arte, segue un cammino che non sempre le si rivela al primo colpo, gioca di modestia e lavora con le mani per poi arrivare all’intelletto, conservando una qualità artigianale e un’azione di recupero che rendono la sua produzione molto moderna ma sempre in stretta relazione col passato.
Dopo gli avvii figurativi, la fascinazione per l’impianto cromatico e per il luminismo impressionista, le speculazioni paesaggistiche insistenti sul tema boschivo che conducono gli esiti dell’artista dalla tarda adolescenza e poi per diversi decenni, improvvisamente, come un’illuminazione arriva una rivolta in termini di materia e volume.
C’è come un liberarsi dai vincoli del disegno, mai amato del tutto, per darsi completamente al colore, alla luce e allo spessore. C’è un emanciparsi dai modelli seguiti e dai risultati cercati, un sollevato assolversi per il disamore dell’ordine ed un fluido sgorgare emozionale che riversa sulla tela il temperamento irrequieto della pittrice, trasformando le sensazioni in linguaggio espressivo privo di diaframmi.



Senza titolo, 2006 -  Senza titolo, 2006 

Le vecchie tele tornano utili e si coprono di strati preparatori, prevalentemente scuri, che conferiscono particolare risonanza alle tinte d’impianto generalmente freddo, ma speziate da dominanti terrose catalizzatrici della luce, che va a infilarsi dove i pieni creano ingorghi ed ammassi senza pretesa alcuna di figurazione, tesi soltanto alla percezione, al sentore, all’idea.
Dei dipinti di PG, Dino Baiocco – pittore e gallerista della Galleria Centofiorini, specializzata nella pittura anoggettuale di maggior risonanza degli ultimi trent’anni – diceva che “hanno una bella tensione”, cogliendo l’elemento principale di un’orchestrazione giocata quasi esclusivamente sull’impasto cromatico, sui contrasti e sulle fusioni, sui bagliori a schiarire i neri dei fondali e dei contorni, morbidi, traccianti a volte, e quasi per caso, vaghi paesaggi della mente, forse con un lontano richiamo, altrettanto casuale, a certi esiti del Blaue Reiter e di Franz Marc.
Episodi paesaggistici ogni tanto tornano ad alternare la prevalente scelta non figurativa, compaiono visioni di case ed alberi, soggetti quasi totemici di un immaginario personale muliebre e materno che non si disperde, sebbene oramai sia direttamente il colore a dare linee e masse degli scenari, essenziali, più allusivi che mimetici, portatori di una qualità ventosa della sensazione. Recentemente, l’occasione della partecipazione ad una mostra collettiva sulla questione sensoriale – NOW - No One Way, organizzata da Rrose Sélavy nel giugno 2011 agli Antichi Forni di Macerata – produce una riflessione tematica della pittrice attorno ad un unico specifico argomento, in quel caso il senso del gusto, con la lavorazione di differenti opere contemporaneamente, dalla pittura multimateriale su tela e su tavola all’installazione. 


Papille, 2011(partic.) 

Non è semplice rendere le sensazioni. Il campo è propriamente quello dell’arte ma come si fa a rendere in termini pittorici il gusto di qualcosa? Non la forma, l’aspetto, il colore di un oggetto come una mela, un gelato, un arrosto di carne – tutto questo atterrebbe alla vista – , bensì il loro sapore, l’insieme di aromi, effluvi, consistenze, percezioni. Si tratta di pensare il gusto e allo stesso tempo viverlo istintivamente, poi tradurlo in pulsazioni cromatiche che restituiscano l’intera esperienza di un pasto, suggerendo le singole note e gli accenti di sapore al riguardante che, a prescindere dai formati, può tuffarsi in un dilagare di riverberi sensoriali. 


Desco Bianco, 2011 

Per l’evento PG concepisce una cena a colori introdotta dall’installazione Desco Bianco, un’elaborazione di recupero a smalto e stucco come sorta di ingresso neutro alla tavola ideale sulla quale consumare pietanze cromatiche scelte che, scorrendone i titoli, costituiscono un vero e proprio menù dalle intenzioni sensuali: Aragosta afrodita I e II, Sale (acquatico), Scorze di limone (verde cinabro), Morire di sapore (nocciole e rose), Filtri e liquori (distillati)… una cena di pesce introdotta da Papille, porta d’entrata del sapore, e dispiegata dai piatti di mare fino a dolci ed elisir di fine pasto. Il risultato è intenso, voluttuoso, l’impressione è di completezza e soddisfazione dei sensi, con un lascito avvolgente davvero vicino all’esperienza più edonista del gusto.
La lavorazione a stucco, gesso, smalto, sabbia e composti vari utilizzata per Desco Bianco continua poi ad ispirare PG, attualmente impegnata nel penetrare matericità e purezze, candori attraversati da presenze ed ombre, dove lo spessore diventa dominante e gli strati lattei prendono tele, vetri e cornici, come tempo che si deposita sulle cose, un’azione memoriale che sbiadisce e lascia fantasmi, superfici scabre e irregolari, eco di passate sembianze di cui rimangono accenni di colore e qualche gradazione polverosa. In tutto questo acquista un senso particolare il gesto del recupero, il riutilizzo del supporto, dove la pittura prende tutto, finanche il chiodo d’appendimento. L’ispirazione viene forse dalle haute pâte di Fautrier o di Lavagnino, coniugate a certi vagheggiamenti alla Raciti, ma l’approccio risulta molto rudimentale, dal punto di vista tattile, e poetico, dal punto di vista concettuale, è inoltre un progredire sul cammino battuto sin dagli anni Settanta, con le tele rimesse in uso più e più volte dopo l’incorniciatura, per sfruttarne la massa, la grossezza di certe pennellate seccate, oggi in parte sostituite da gessi e siliconi quando il fare diventa veloce, alla ricerca del dato tattile e di tensioni palpabili, che fanno delle sue opere esperienze plurisensoriali.


Bianco, successioni, 2011 

Di fronte ai lavori di PG si comprende che la pittura non è solo un fatto di vista. Si guarda ma l’occhio trasmette informazioni che si leggono con tutto il corpo e che risuonano particolarmente nella testa e nelle mani, con coinvolgimento, voglia di scoperta, verità della sensazione.