MARIO RACITI e l’universo antinomico
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, settembre 2011
articolo per conferenza Mario Raciti e l'ambiguità dell'ignoto"

Galleria Centofiorini, ottobre 2011

“Cosa v’è in un nome?”

Romeo e Giulietta
(II, 2)
William Shakespeare



Categorie. Forme sensibili. Forme-concetto. Un universo di termini, parametri, specificità che ci
aiutano a fare ordine, classificare, riporre per poter all'occorrenza estrarre.
Dire, indicare. Denominare.
È una tendenza alla titolazione, alla didascalia, la nostra, fa parte del processo di razionalizzazione.
Chiamare per identificare. Specie se il campo è quello delle arti visive.
Ecco la motivazione delle iconografie: il riconoscimento, l’assimilazione.
Ma c’è un momento in cui tutte le regole conosciute vengono sovvertite, c’è un momento in cui l’uomo – in quanto essere creativo – necessita di una rivoluzione dei linguaggi, solitamente in risposta a un richiamo del contesto socio-culturale, e allora la sommossa è nei mezzi (come auspicano gli artisti più all’avanguardia dell’Informale, gli Spazialisti ad esempio) o magari nei contenuti (ripensare l’opera restando dentro l’opera, mutare l’espressione senza mutarne gli strumenti, come sostengono i fedeli alla Pittura pittura), comunque il cambiamento avviene, anche se nell’intimo di una scelta artistica del tutto personale.
I decenni in oggetto sono i più volubili dell’intera storia dell’arte, i Cinquanta, i Sessanta, i Settanta, si spingono in tutte le direzioni, fortemente contrastate e sottilmente teorizzate, danno origine a incredibili coesistenze di realtà difformi e dissonanti eppure validissime perché tese a restituire i due concetti fondamentali della moderna critica d’arte: la visione nel mondo (Weltanschauung) dell’artista e lo spirito del tempo (Zeitgeist) che egli vive.
L’Espressionismo Astratto americano, l’Informel europeo e tutto quanto sguscia da questa agitazione immaginifica che azzera figurazioni e simbologie per ridurre tutto a termini primari e sostanziali quali colore, gesto e segno, sconvolgono il mondo delle iconografie. Lo fanno sulla base di quanto avvenuto in precedenza, instradati certo dall’Astrattismo, dal Surrealismo, dal picassismo in generale, ma in piena e violenta risposta a sensazioni e percezioni di quel momento storico e sociale. L’immagine smette progressivamente di essere figurale per darsi in termini eidetici (e un'immagine mentale è eidetica quando possiede le caratteristiche della cosa percepita – non vista), dentro emozionalità iletiche o disidratazioni segniche, comunque lontana da denominatori comuni, molto più intima e al contempo molto più esposta. Silenziosa e gridata.
Si tratta di una spontanea soppressione linguistica, ma anche di un incremento delle possibilità.
Dietro questo tracciato sottile si ravvisano le scelte ed il percorso di Mario Raciti, artista abbastanza in linea col suo tempo da rifiutare i razionalismi ma non troppo da conformarsi alle tendenze modaiole e commerciali dell’arte. Egli preferisce il segno alla materia, il grafismo misto di pittura ai mezzi alternativi e recupera un certo tipo di figurazione dentro il dilagare anoggettuale, come impastando e annodando le ispirazioni che girano intorno all’arte per farne un linguaggio atipico, che non è tanto codice, quanto traccia, intuizione, suggerimento.
Arte, sensazione, cortocircuito della ragione, apertura al campo delle possibilità, dicevamo.
Raciti recupera elementi pulsanti di un io dispiegato nel tempo, li guarda spogliandoli delle sovrastrutture e li riduce in segni ingenui – ma non innocenti – che, sostenuti da una pittura intangibile come un simulacro, rendono l’opera una stenografia emozionale.
Questa semiotica però rimanda ad una significazione altra, ad una rivisitazione dell’immaginario che l’artista compie deliberatamente per restituire all’uomo “la libertà di una sua misura” – egli dice – “non come mezzo solipsistico ma come palestra per esercitare la complessità delle strutture antropologiche.” L’uomo trova nel quadro l’imprevedibile, l’inafferrabile e dunque l’ineffabile che caratterizza le sue stesse percezioni interiori, infinite, indicibili e la sua condizione è libera di sentire e interpretare perché non è veicolata da costrizioni semantiche.
A Raciti interessa l’ignoto, l’ambiguo, la visione, che a volte è più suono che figurazione (“Odo io la luce?” si chiede il Tristano di Wagner) e allora la costruzione dell’immagine si spinge oltre, abbandona “le chiuse stanze della logica per trasmigrare all’aperto del desiderio, fornita di altre certezze”.
Anche i titoli lasciano le immagini indeterminate, a ben guardare, perché cosa sono le Presenze-Assenze? I Misteri? Le Mitologie? E questa ultima produzione che risiede sotto il nome di Why?
“La pittura è un fantasma”, scrive l’artista, e le sue opere sono aperte – per dirla con Umberto Eco – sono strutture complesse di campi possibili, sono sussurri, fruscii e brevi accenni di spiritelli, teleferiche, fari, giostre e sonde (se facciamo riferimento alla prima produzione) vaganti dentro spazi illimiti, dentro il nulla illuminato, dentro il bianco rarefatto e sacrale, seguendo la scia di ricerche che pongono sullo stesso piano – quello bidimensionale della tela o delle carte – poesia, pittura e musica in accezione psico-filosofica, per arrivare a toccare e rappresentare l’irrappresentabile, lo spazio utopico, il luogo dove accade tutto e nulla e dove l’idioma non è più lo stesso: “di là, dove erano confluite tutte le immagini, discendevano i fantasmi, non più cose nominabili ma visioni antinomiche e complesse (…) e la pittura doveva fare i conti coi suoi ancoraggi tradizionali”.
Mario Raciti si spinge a fondo, all’interno, compie un viaggio in un cosmo velato e nebbioso, che si disegna e si tinge di vaghezze, emette suoni delicati, parla lingue amene e luminose (specie nei pastelli), e non smette mai di farsi domande, sondare e affrontare, annullando tutto il conosciuto e significando nuovamente, senza sosta, all’infinito.

“Il vero poema non è più la parola
che racchiude dicendo, lo spazio chiuso
della parola, ma l’intimità respirante,
per cui il poeta si consuma per accrescere lo spazio
e si dissipa ritmicamente: pura accensione interiore
attorno a nulla.”


(Maurice Blanchot)





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