Renzo Ferrari 
rosso d'autore
di Marta Silenzi
Galleria d'Arte La Colomba 
Lugano-Viganello 
10 novembre-9 dicembre 2012


“Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua verde, l’aria
gialla e il fuoco è rosso, poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena
riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e
giudica secondo quello.”

Paracelso





Le opere di Renzo Ferrari sono da oltre cinque decenni un’autentica fiammata.
Si tratta di un fuoco che mantiene un nucleo di ghiaccio – forse per via dei natali ticinesi che lo collegano alle coordinate nordiche o forse per una lucidità innata che nasconde un occhio critico acuto dentro aspetti grotteschi e generose eccentricità –, é un falò delle vanità che spinge nel calderone colori terrosi per partorire (con dolore) sintesi di realtà spietata, masse e volumi da cui salgono prima gli occhi, poi le sagome, sempre più numerose, di un’umanità deformata dal carico psico-empatico che è chiamata a fronteggiare nel quotidiano, schiacciata dal peso simbolico di monitor e televisori che dominano il pianeta con memoria orwelliana.
L’individualismo, le forze sciamiche della natura, le teste di cardo come ritratti spinosi, gli angoli di periferia, abitati da tossici, dai coatti e da un pullulare compresso di anime, ombre spersonalizzate in movimento, contorni catatonici che a volte accolgono un guizzo d’erotismo, altre diventano riflesso di un accadimento di cronaca urbana, si stagliano tutti sui fondi bruciati di tavolozze accese, sui gialli, sui verdi brunastri, i vinaccia e le terre, fino agli slanci più divertiti e recenti dei rossi, solcati da scritte, rallegrati da un misto collage che rende i lavori dell’artista opere d’urto mai banali.
Renzo Ferrari, nella sua opera di rifigurazione dell’immagine, non rinnega un ductus pastoso d’estrazione informale, ma lo coniuga abilmente a motivi ritornanti che uniscono l’idea di un ambiente a quella di figure che lo abitano, siano esse volti deformi e occhiuti che insinuano gli sguardi e trasmettono un’angoscia grottesca, o giganti-macchina bullonati dalle teste squadrate e gli occhi fissi, o ancora silhouette nere dai profili colati come vernice di graffiti sui muri, in ogni caso non esiste distinzione netta tra elemento figurale e sfondo: il colore stende, delinea e impasta e poi si lascia scrivere e graffiare, senza però che ci sia mai un compiacimento nella materia, soltanto sostrato a favore del segno-colore, fino a concedersi, ultimamente, a collage di tema erbario sui quali comunque domina l’impeto, la vampa sempre accesa, l’incendio delle violente tavolozze.
Il colore è il primo attore del racconto ferrariano. Il dramma dell’uomo – isolato in ripetute terre d’esilio – è affidato in primo luogo al rogo dell’impianto cromatico (certo senza dimenticare la forza tagliente del tratto che emerge con vigore anche nelle carte e nelle incisioni), rovente pure nei verdi e negli azzurri, spesso giocato sugli ocra e sulle tonalità ambrate, qualche volta buio e fosco con lampi bianchi, ma soprattutto organizzato a contrasto sui rossi.
Il tuffo di Ferrari nelle tinte sanguigne avviene non prima dei tardi anni Ottanta. In precedenza l’ibridazione segnica e figurale coinvolge anche quella cromatica e, sebbene il colore primario faccia inevitabilmente la sua comparsa, è successivamente che i toni si fanno più emotivi, più espressionisti, dati in larghe campiture sugli sfondi, stesi a contrasto, in un conflitto cromatico – dichiarazione di quello umano – in cui primeggiano intensi carminio e profondi granata, in dicotomia coi grigi e con le gamme aranciate, talvolta scendendo a farinosi bordeaux.
Negli ultimi due decenni la luce sembra aumentata e Renzo Ferrari si spinge avanti, incalza e pressa sulla scala dei rossi sempre più ardenti, quasi aggettanti, in una brace che accoglie le scritte e il collage, rinnova i motifs, orchestrando con divertita sapienza le svariate componenti della sua ricerca, restituendo immagini febbrilmente passionali, siano esse visionarie insonnie immerse nel giallo, odissee graffite in colate purpuree, radici o mandragole in nero che esibiscono le spine rosse di questa difficile società, dove ogni giorno è una nuova follia in un calendario feriale.









(podcast: puntata del 21 novembre, 21 min e 24)