L’artemagia di Claudio Olivieri
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Le immagini luce: Valentino Vago e Claudio Olivieri"
Galleria Centofiorini, aprile 2011



« Grande sospetto merita la spontaneità, e complicati elogi
meriterebbe l’artificio, questo sì, davvero arte, artefatto, e come si
dice nell’Alentejo (…), artemages, come a dire “artimmagie”,
che, balza agli occhi, è il modo popolare di designare le arti
magiche. O si tratta piuttosto di arte di immagini? Visto che non
ho ancora dimenticato del tutto di essere un pittore, quest’ultima
ipotesi mi attira: quella di chiamare “artimmagie” la pittura .
Quanto sarebbe più bello il nome di “artimmagista” invece che
“pittore” (…) »

da Manuale di pittura e calligrafia
José Saramago



Gli occhi di Atlantide, tecnica mista su tela, 1977

Le immagini create da Claudio Olivieri evocano un mondo sonoro prima ancora che visivo.
Ci si avvicina alle tele e si assiste al prodigio di sentire nella mente uno scampanellio tenue che poi si fa corposo e ricco di coloriti: un mezzopiano che raggiunge il mezzoforte, forte, fortissimo, ma ben oltre lo spartito, oltre una griglia ordinata e rigida, diretto invece all’immensità illimite.
I passaggi tonali sono pittorici e sono musicali, si trascolora piano tra le nuances, si segue con gli occhi una discesa, una modulazione ed è come vedere una produzione di onde sonore, una vibrazione, ma non reiterata o tremolante, la variazione è sinuosa, è un’inflessione dolce che si muove con cadenza elegante, cedevole e maestosa al contempo.
Olivieri alleggerisce una pennellata piena e pastosa, come poteva essere quella degli esordi informali, e la disperde in velature sempre più sottili, togliendo, restituendo alla visione ciò che era stato preso dal tattile, spingendo tanto all’interno della materia da valicare una dimensione, oltrepassare il varco dell’empirico per raggiungere l’inafferrabile, lo spirituale che è al di là della sensorialità.
L’artista persegue l’immateriale, l’incorporeo, rifiuta la rappresentazione del reale, la riproduzione, sostiene che “chiedersi a cosa somiglia un quadro è come non guardarlo”, egli prende il colore, lo inonda di luce e lo muove entro lande indefinibili, dove non esiste parola, soltanto pittura, eminente, eterea, che crea spazio, soffi, vapori, sciabordii, riflessi, magie che accadono “quando tutto il resto si ritrae” (G. Accame).
Era partito dall’Informale, dalla linea d’inazione rothkoniana, aveva militato tra le fila della Pittura Analitica, per conquistare progressivamente una cifra personale entro quel discorso di pittura che rimane fedele e a se stessa, che sa raccontare il suo tempo e l’intimità dell’artista senza cedere a troppi concettualismi o snaturarsi in stravolgimento dei mezzi. Dagli anni Ottanta le superfici si sono poi fatte fluide, hanno perso qualsiasi concretismo e hanno ceduto completamente alla luce e al colore, scivolando verso la visione estetico-estatica e lasciando il fruitore preda della percezione, andante su quel cammino ascetico, mente e sensi accesi al cospetto di quelle “artimmagie”.


    Perenne, 2008 - Mangiafuoco, 2008 


Sono come presentimenti in forma pittorica che mantengono le due sponde dell’esoterico e dello spirituale insieme, una tensione – a volte bipartita e specchiata nella composizione delle tinte – che tende ad una sacralità visiva e sensoriale. Il risultato è lo splendore, il grande mistero della luce, qui mezzo, soggetto, componente ri-velatrice, che illumina e adombra, si mescola al colore e lo vivifica, lo esalta e lo disloca, muovendo volumi come masse d’acqua, più ancora come metalli colati, liquidi, preziosi, che fluiscono o s’increspano, spesso scuriscono in casse di risonanza o quinte laterali, in cui risiede una sorta di rallentamento, di attesa atemporale, dove anche il suono si attenua e cede il passo al silenzio. 
“Ancora si vanno cercando riferimenti, forme, relitti, appigli, ancora si pretende di verificare attraverso la garanzia del riconoscere. Ma dovremmo aver capito che l’invisibile doppia il visibile e, grazie al visibile noi siamo ciechi”: Olivieri affida alla pittura la responsabilità e la libertà dell’espressione non-verbale, riserva tutt’altri spazi alle denominazioni, eppure le sue opere di rado hanno titoli generici. Sono richiami specifici quelli in calce alle opere, eco mitiche, esotiche, prove di grandi conoscenze e profonda cultura, forse notizie di illuminazioni, magari memorie di quella Grecia che fu di tanta ispirazione, con le sue sculture portatrici di una “luce interna”, come un’origine focale ben oltre i profili e le ombre. Ma probabilmente quello della didascalia è già un giardino separato, fuori dal campo pittorico e dentro quello degli attributi e delle qualificazioni, che anela a costruire immagini con le parole, creare sostituzioni, laddove la pittura semplicemente è.


   Rosso oltre, 2007 - Mitomane, 2003

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