GIANNI REALINI e il dipinto sonoro
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Gli svizzeri: Cavalli, Dupertuis, Ferrari, Realini"
Galleria Centofiorini, novembre 2011


“Già molto presto mi resi conto dell’inaudita forza d’espressione del
colore. Invidiavo i musicisti, i quali possono fare arte senza bisogno di
raccontare qualcosa di realistico. Il colore mi pareva però altrettanto
realistico del suono.”

Vasilij Kandinskij



Sulle tele, sulle carte di Realini avviene qualcosa.
Ci si affaccia all’immagine bidimensionale e parte un movimento, una serie di spostamenti in direzioni opposte e contrarie, pennellate piccole, parallele, orizzontali in una zona del quadro e verticali, più estese e sottili, in un’altra, poi balzi, sciabolate che puntano l’esterno e scivolano in graffi ritmici, azioni di raccordo, danze segniche in positivo e negativo che sezionano le superfici, aggiungono taches, scandiscono l’insieme con fini teorie di vertebre o accenni di tastiere, contrappunti di colore, giusto un tocco, sopra al bianco, al nero, al grigio.
Sono azioni interne all’opera che guardiamo, azioni dell’artista il cui gesto diventa corpo, volume, tono, immagine che conserva il dinamismo, il vortice intrinseco, e non lo lascia.
Sale in testa Michel Magne e il suo Musique Tachiste, suoni incalzanti, fruscii che accompagnano le spirali, rintocchi sui coaguli cromatici, archi che tengono la nota dove scurisce il fondale, trilli sul rosso, rumore di vetri sul blu.
È un’esperienza plurisensoriale il lavoro di Realini, una musica pittorica, una partitura pennellata, una strumentazione visiva: le opere sono composizioni contemporanee – termini validi in campo figurativo come in quello melodico –, si stendono sulla tela con occhio strutturale ma non perdono quella scintilla che coglie ripetuti accadimenti. L’artista sa percepire l’arrivo della scossa: dipinge vigorosi strati bianco grigi, fa spessore, oppone i neri e quindi porta il gesto all’estremo, lo segue, lo lascia fluire e la rapsodia esplode improvvisa nel giallo, lo lavora, lo sfuma un poco, ancora lo condensa, ritorna al nero e lo scrive, lo incide, respira, pulsa.
Similmente sopraggiungono sussulti rosso arancio, tocchi lavici, ematici, che attraggono l’occhio e in un attimo cambiano e completano la base di solito bipartita.
Queste condotte sembrano assegnare pari percentuali di volontà all’artista, all’incidente pittorico e alla pittura stessa, in realtà è un crocicchio di energie umorali che non oppongono resistenza, anzi si snodano e scontrano sulla superficie, dietro l’egida sapiente di Realini che allaccia, guida, dosa, scurisce e rischiara, bilancia gli alti e i bassi, i toni e i semitoni, le pause e gli attacchi, come un direttore d’orchestra che batte tre volte la bacchetta sul leggio e poi dà il via con impeto al movimento.
È molto facile ravvisare tendenze informali in questo tipo di opere ma con Realini si ha uno scarto in più: materia, gesto e segno sono utilizzati non soltanto come mezzi espressivi di esperienze totalmente interiori all’essere, talvolta sono anche restituzioni di esami visivi, dati però in termini di macchie e linee, come una registrazione fuori fuoco che si basa sulle componenti essenziali dell’immagine. Il risultato è una visione partecipata, filtrata da un passaggio emotivo e da un approccio vitale, con palpiti, fremiti e vibrazioni sonore oltre che corpose.
Ci sono andanti, mezzipiano, mezziforte, che fanno vento sulla tela con le loro evoluzioni, in questa tavolozza minimalista, raffinata, jazzistica, ampiamente spiegata al dilagare luminoso e qualche volta notturna, frusciante, come una puntina sopra un vecchio vinile.




Nessun commento:

Posta un commento