MARCEL DUPERTUIS – anatomia e calligrafia
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Gli svizzeri: Cavalli, Dupertuis, Ferrari, Realini"
Galleria Centofiorini, novembre 2011


“Dal dedalo di gesti, atteggiamenti, grida lanciate nell'aria,
da evoluzioni e giravolte che non lasciano inutilizzata nessuna parte dello spazio scenico,
si sprigiona il senso di un nuovo linguaggio fisico basato su segni e non più su parole”

A. Artaud


Linguaggio fisico, anatomia filiforme, massa tattile e sottile come corpo danzante, sospeso nel vuoto o giacente, esito della propria esistenza, messo a terra dai passi che non vengono, dalle mancanze d’arti, da intollerabili sistemi di gravità.
È il Dupertuis dell’atelier quello che arriva alle grandezze, più ancora di quello dei geometrismi monumentali in acciaio inox degli anni Settanta; è l’artista delle anime di fil di ferro ricoperte di colore scolpito, è l’incisore di segni e aloni di perfetta coerenza ed equilibrio, è l’esistenzialista che incarna i segni, li annoda, li pressa in diteggiature che hanno la liricità dell’essenziale e l’armonia dell’eleganza, anche quando la difficoltà di vivere sforza gli atti e contorce i movimenti di questa stirpe di umanoidi non ancora formati nel corpo ma pienamente sviluppati nelle sofferenze e nell’intelletto.
Dupertuis scolpisce, disegna, dipinge, incide linee continue.
La linea è una scia umana, è l’anima che conduce dall’interno e nell’esterno, è il pensiero che si fa movimento e si libera in evoluzioni ad arco separando e interrompendo l’atmosfera ordinata del vuoto, acquistando progressivamente la leggerezza dei materiali (dal bronzo alla cartapesta) e la purezza dei colori, dalla dicotomia bleu-marron al tout blanc dei dipinti modulari, sezioni reiterate del motivo curvo che rincorrono l’impercettibile variazione infinita di microspostamenti: la semplicità compiuta di una linea che non stacca il pennello e digrada verso l’assenza, verso un’invisibilità che ha sapore zen (Sans titre n.28, 16 dipinti, 2005, acrilico su tela e papier collé).
L’inquietudine interiore dell’uomo, le sue fragilità, le sue goffaggini Dupertuis le mostra apertamente, mettendo in piedi o a terra queste creature esili ma palpabili, più robuste degli omini di Giacometti anche se meno formate, primordiali o residuali nei loro spasmi e fatte di quelle linee che la Richier inscenava tra le membra, forse ricordo di movimenti, eco nell’aria e danza incessante. 



Questi agglomerati, che più spesso sono corpi ma a volte anche muri filtranti e totem e sperimentazioni del segno volumetrico portato al parossismo, trovano nel loro farsi la finezza del minimalismo, che non resta mai stonato e sempre lirico, sempre acutamente intellettuale: c’è quindi un doppio peso da considerare, la gravità dell’esistenza contenuta nella levità di tracce e masse.
Le opere di Marcel Dupertuis sono come i “corpi senza organi” teorizzati da Gilles Deleuze, sono ciò che rimane di corpi organici che con le loro stratificazioni interne hanno ucciso le capacità produttive, sono i corpi senza organizzazione che permettono il passaggio del vento e si fanno campo di tensioni in grado di tornare alle potenzialità del desiderio, nel principio basilare del continuum che cresce, genera, origina, prolifera.
L’azzeramento, la stilizzazione estrema, la spoliazione dell’oggetto plastico, la “necessità d’un oblio totale per rinascere e dunque ricominciare, compiere l’avventura enigmatica del labirinto umano” – scrive Dupertuis – toccano inevitabilmente corde scoperte, come quella costante della cultura svizzera individuabile nella follia: un misto di estremismo cerebrale e senso del grottesco che sa di riso amaro, di calma radicale, di coscienza inquieta. E questa percezione supervigile prende forma dentro spazi metafisici, dentro immensità silenziose ben lontane dal modernismo geometrico degli inizi, immerso nella natura fisica: le sculture, le acqueforti lavorate con acquetinte e puntesecche, gli acrilici, provano tutti un rapporto di purezza con lo sfondo, con l’intorno, con le profondità incommensurabili ed è come se questa capienza cedevole del vuoto fosse la scena del dramma esistenziale che ogni giorno si consuma, fisico e straniante nei contorni maneggiati del bronzo, della ceramica, della cartapesta, e fluido o calligrafico nei dipinti e nelle carte, date per coppie cromatiche armoniche o in contrasto, molto spesso dagli esiti estetici raffinati e mai illustrative, strumenti basici di un ipnotico “teatro della crudeltà” alla Antonin Artaud.




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