PIERLUIGI LAVAGNINO – il tempo ritrovato
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Pierluigi Lavagnino: l'attesa del ricordo"
Galleria Centofiorini, maggio 2011



«la réalité vivante n'existe pas pour nous tant qu'elle
n'a été recréée par notre pensée»

Marcel Proust



Tra il 1909 e il 1922 Marcel Proust scrive i sette volumi di un’opera titanica, frivola e insieme intimistica, un capolavoro letterario in grado di ritrarre ironicamente un’epoca e tracciare sottilmente un percorso interiore che dall’esterno arriva alle profondità umane per mezzo della memoria, dietro l’obiettivo di andare Alla ricerca del tempo perduto.
Pierluigi Lavagnino (1933-1999), pittore ligure di grande sensibilità, conosce l’opera di Proust in età giovanile e sembra intenderla, interiorizzarla ed assumerla in qualche modo come dictat per il proprio itinerario pittorico. Dipingere è una vocazione ed un mestiere, anche contro una diversa volontà paterna, anche contro ristrettezze e difficoltà economiche; essere è dipingere e dipingere è una recherche come quella proustiana, un partire ed un andare, diretto agl’ineffabili meandri dell’Io.
L’esperienza sensoriale è il punto di partenza, un’attrazione inequivocabile per il dato naturalistico, una predilezione per le gradazioni verdeazzurre, dentro le quali si nasconde la luce, quel giallo rosato dei cieli in apertura o in chiusura di giornata; alle acque, alle terre, alle chiome e alle fronde subentra però presto un elemento che in-distingue, che attenua i contrasti, che smorza i dettagli e si dedica con più forza al volume, aumenta la materia, addensa, ricopre, fa livelli così come lavora il tempo, come opera la memoria.
Il mondo scorre, si succedono epoche, voghe e tendenze, Proust ne dà un acuto ritratto innervando tutta la Recherche di leggerezze e vanità mondane della sua epoca; Lavagnino le rifugge, il suo percorso non si allinea alle mode del momento, egli mette a fuoco i suoi interessi e si spinge in avanti solitario e determinato – “Vi sono periodi di pausa nei quali la pittura sembra volersi nascondere, mimetizzarsi per lasciare spazio, o meglio dare corda alle varie retoriche che possono assumere le vesti più svariate (…) ma è proprio allora, quando la pittura si ritrae dalla mischia, che essa diventa più libera, ancora più efficace. Nel suo silenzio si rivitalizza e sottentra poi rapida, con la sua lunga ombra a rioccupare il suo ruolo primario (…). Alfine è lei, la pittura, lo strumento attraverso il quale tento di chiarire la mia visione, in un’aspirazione a cogliere il profondo, essenza dell’immagine, non attingendoli nell’arido pensiero concettuale” (Pierluigi Lavagnino) –, ma anche nel più chiassoso presente arriva il momento della solitudine, l’istante della penombra, al chiuso, quando s’innesca lo scatto della “memoria involontaria” e qualcosa richiama una sensazione dal passato: per Proust sono le madeleines nel tè, i campanili di Martinville, la siepe di biancospini a Balbec; per Lavagnino sono i quadri, le tele dipinte strato dopo strato che all’improvviso lasciano affiorare la visione vissuta sensorialmente all’aperto e rievocata in studio, attesa dentro la pittura.
Il quadro – che sempre più alla maniera di Fautrier si costruisce come muro, poeticamente materico, depositario degli impeti e degli assalti dell’animo – è il luogo dove si fondono materia e memoria, dove avviene la resurrezione di una sensazione passata che la pittura ha il compito di tradurre, e l’artista è lì, teso a cogliere il manifestarsi dell’accadimento, perché, come dice Ruggero Savinio, “Che cosa significa essere visionario, se non rimanere in ascolto, mantenere desta l’attenzione per riconoscere l’altro, se appare?”.
Queste apparizioni hanno una volontà autonoma, Proust le chiama intermittences, ed il loro rivelarsi determina un sorgere del passato sul presente, con una conseguente vittoria dello spirito sulla materia, ecco il perché del piacere che lo scrittore francese ogni volta ne trae: i “pavés assez mal équarris” del cortile dei Guermantes gli svelano la sola felicità possibile, il ritrovamento di sé nelle cose e nei luoghi, fuori del tempo, e con un tale grado di gioia da rendergli indifferente anche la morte. Siamo in un ambito che sfonda i limiti, che supera la ragione e s’immerge nella sensorialità, in un tipo di immaginazione – la rievocazione del passato appunto – che non è mai solamente riproduttiva ma anche nuovamente creativa. È il medesimo episodio che si compie ripetutamente sulle tele di Pierluigi Lavagnino, dentro una striatura pastosa che secca sulla superficie come una ferita, dietro il disporsi nubiforme dei volumi anoggettuali, sotto le scabrosità e i graffi murali nati dalle più soavi modulazioni cromatiche e luministiche. 
Come Proust “condanna ogni forma di piatto realismo e dà alla creazione letteraria la funzione di fissare ed eternare le conquiste immaginative, i recuperi della memoria, la vittoria sul tempo” (Luigi De Bellis), così Lavagnino eterna sulle tele, tra le stratificazioni del suo lento farsi pittorico, l’emergere di scritture memoriali che assumono l’aspetto di un grumo, un addensamento di colore, una rugosità, un segno primordiale sopra la stesura amabile delle tinte e delle pennellate. Talvolta il ricordo è più descrittivo e torna a richiamare fronde, cieli e marine dei suoi luoghi, velandoli però del codice Informale che toglie definizione esattamente come il tempo attenua, sfoca i contorni, si avvicina alle masse e lavora per via di cancellazioni e coperture, anno dopo anno, strato dopo strato.
Non a caso l’artista ligure chiama molte delle sue opere degli anni Ottanta Sottoscritture o Scritture cancellate, perché è così che lavora la memoria e l’anamnesi produce immagini impostate sul recupero di quelle sensazioni, che partono dal dato empirico, figurale o paesaggistico, per arrivare alle più nascoste interiorità dell’essere cui gli è spesso impossibile dare un titolo.
Nell’arco delle oltre tremila pagine della Recherche Proust costruisce il suo viaggio “come un’ascesa e quasi come un’ascesi, un passaggio dall’apertura a una raffinata mondanità allo scavo verticale in direzione dei più fondi valori interiori” (Luigi De Bellis); Lavagnino si muove similmente, promuovendo una vittoria della memoria sul lineare scorrere del tempo, provocando pittoricamente fratture di superficie che esprimono un accadimento senza doverlo raccontare, passando da un piano evocativo a un piano di riflessioni che vanno a definire il gioco sensitivo ememoriale.
La grande affinità, certamente elettiva, tra l’opera proustiana e quella di Pierluigi Lavagnino si ravvisa quasi interamente nell’ultimo volume della Recherche, Il tempo ritrovato, in cui lo scrittore si accorge che il ricordo del passato è percepito diversamente rispetto al vissuto, è il riecheggiamento a provocare una maggiore gioia ed è in relazione a questa che viene presa la decisione di scrivere: per far risorgere il passato e attingere ai suoi infiniti poetici risvolti; analogamente l’artista sceglie la pittura per farne linguaggio della memoria, le paste alte e le inflessioni tonali come tracciato dell’avvenuta emissione, “il nostro fragile io”come “l’unico luogo abitabile” (Marcel Proust).







ph. esposizione Galleria Centofiorini in occasione della conferenza.


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