Artisti e gallerie – artisti in galleria
di Marta Silenzi
testo in catalogo della mostra  collettiva "Artisti in galleria - un'idea per osare"
a cura di Franco Morresi
Sala Arte Contemporanea Vincenzo Foresi
Civitanova Marche
24 marzo - 15 aprile 2012

Solitamente la fruizione artistica consiste nel recarsi in un luogo dove si espongono o si conservano opere d’arte per poterle guardare nella loro compiutezza.
Questi luoghi-contenitori, di collezioni permanenti o mostre temporanee, prendono il nome di musei, o più spesso di gallerie. Il termine viene dal francese e va ad identificare una sorta di lungo passaggio coperto in un edificio abitualmente adibito alle passeggiate e quindi ornato di quadri, statuaria e oggetti pregiati con lo scopo di allietarle. Oggi la galleria d’arte è anche quella che, oltre ad esporre, vende le opere e si occupa maggiormente di arte contemporanea, salvo il caso in cui si tratti di una galleria antiquaria.
Comunque in ognuno di questi spazi l’opera che andiamo ad ammirare è finita, cioè l’artista ha completato la sua ricerca e lavorazione riguardo quello specifico manufatto e noi ci troviamo di fronte all’atto finale, al risultato, all’esito ultimo di un processo di realizzazione di cui non sappiamo nulla o, pur conoscendolo, non vediamo nulla, non nel suo svolgimento.
Negli ultimi cinque anni, dietro l’input e l’organizzazione del maestro Franco Morresi, alcuni giovani artisti locali rivoluzionano tanto il concetto di ‘opera finita’ quanto quello di ‘contenitore espositivo’, osando mostrarsi nei loro work in progress e adottando come teatro un particolare sito cittadino, una piccola piazza, un popolare centro di ritrovo, coperto ma non al chiuso, che prende appunto il nome di galleria.
L’opera d’arte diventa allora performance. Dall’ideazione alla scansione delle varie fasi lavorative. Dalla preparazione di una tela alla scelta della tavolozza, dal disegno preparatorio alla miscela dei materiali, dalla modellazione di un ritratto plastico all’elaborazione di un’istallazione, dalla figurazione pulp della street art al gioco armonico del body painting.
Dieci artisti in cinque anni si espongono assieme alle loro realizzazioni, mostrando cosa anima il processo espressivo, come si traduce in termini artistici un dato emotivo, come diventa oggetto un pensiero e di cosa si carica lungo la strada, mettendo alla ribalta – sotto gli occhi di un pubblico attivo e brulicante tra le opere, nate quindi nel pieno vitale di serate estive, tra la gente, e non nel chiuso favorevole di un atelier – stralci di ricerche individuali, intimità vulnerabili, energico esibizionismo e differenti personalità in modo che i fruitori possano accedere anche alle zone grigie, agli spazi intermedi, alle incertezze e ai pentimenti, alla spinta infervorata del momento benevolo come all’azzeramento in cui l’immagine non sale, l’idea non si concede, non trova la forma.
Tele e carte accolgono gesti, mosse, evoluzioni di pennello, spargendo odore di colore, costruendo paesaggi di pittura anoggettuale, conservando il valore segnico affidato anche alle installazioni che prendono spazio, sforzano la logica, spingono e annodano (Antonio Del Gatto); o evocando dalle profondità del biancore nuances svanite e disciolte, come lentamente assorbite dalla superficie in moduli che, con grazia, compenetrano e si fanno largo (Elena Bettucci); e concedendosi anche ad attimi di art fusion dal gusto metropolitano, a più mani sulla tela, tra il murales di periferia e l’action più “dekooninghiana”. Prestazioni metodologiche animano volti, dalle fattezze dei presenti presi a modello, dentro una massa di argilla inerte, chiamando dal nulla le fisionomie sui precisi tocchi delle dita, calibrando carezze e incidendo pressioni (Enrico Angelini). Esili disegni a matita cedono la loro leggerezza alla sagacia, all’immediatezza contenutistica dello street art style, dai contorni netti, le campiture acriliche pure e compatte, il messaggio pesante come una sentenza mascherata d’ironia (Giulio Vesprini). Talvolta spuntano cartoline dal sapore anni ’50 ed il gusto del dettaglio che ben presto lascia il pennello per l’ago, quello da cucito, volgendosi al femminile dei soggetti oltre che dei particolari (Martina Pagnanini); un femmineo declinato poi quasi in chiave tatoo, steso con le mani e sposato all’andamento circolare, simbolico, ancestrale, come un rituale propiziatorio fatto di neri robusti, di rossi, di ocra (Laura Martellini). Le mani si sporcano con fondi di bassorilievo spolverati e riempiti di forme abbondanti e linee morbide dal sapore monumentale, valide anche nei volumi scultorei in ceramica raku ispirati a misteri generativi e cosmogonie (Daniela Vito), il tutto opposto ad un dripping compositivo e nebuloso, rinnovato nell’uso di materiali naturali, tra Pollock e il Dubuffet delle Texturologies (Paolo Bernacchia). La sapienza tecnica infine sbalza un rilievo narrativo e solenne della decollazione del santo patrono (Girio Marsili), lavoro notevole, coraggiosamente in contrasto con la vivezza trompe l’oeil del body painting più decorativo, tra mannequins e sirénes (Ilaria Pellerito), dandoci prova degli estremi dell’arte, delle vaste direzioni in cui il linguaggio espressivo può spingersi e come riesce a farlo, con tutta la freschezza e l’impeto che un drappello di giovani artisti ci consegna nelle mani e tra gli occhi.





 ph. di alcune delle opere in mostra


PG : una bella tensione 
di Marta Silenzi 




Senza titolo, 2006 -  Senza titolo, 2006 

Cosa significa sentire il colore? Cosa significa muovere la tela, spingere le masse dentro incontri ed ancoraggi, fare strato, aggiungere, fino all’approdo di un qualcosa che non si spiega ma è tangibile ed arriva attraverso la vista? PG sa cosa significa.
Si nasconde dietro due iniziali, semplice, senza i fronzoli che di solito abbelliscono l’arte, segue un cammino che non sempre le si rivela al primo colpo, gioca di modestia e lavora con le mani per poi arrivare all’intelletto, conservando una qualità artigianale e un’azione di recupero che rendono la sua produzione molto moderna ma sempre in stretta relazione col passato.
Dopo gli avvii figurativi, la fascinazione per l’impianto cromatico e per il luminismo impressionista, le speculazioni paesaggistiche insistenti sul tema boschivo che conducono gli esiti dell’artista dalla tarda adolescenza e poi per diversi decenni, improvvisamente, come un’illuminazione arriva una rivolta in termini di materia e volume.
C’è come un liberarsi dai vincoli del disegno, mai amato del tutto, per darsi completamente al colore, alla luce e allo spessore. C’è un emanciparsi dai modelli seguiti e dai risultati cercati, un sollevato assolversi per il disamore dell’ordine ed un fluido sgorgare emozionale che riversa sulla tela il temperamento irrequieto della pittrice, trasformando le sensazioni in linguaggio espressivo privo di diaframmi.



Senza titolo, 2006 -  Senza titolo, 2006 

Le vecchie tele tornano utili e si coprono di strati preparatori, prevalentemente scuri, che conferiscono particolare risonanza alle tinte d’impianto generalmente freddo, ma speziate da dominanti terrose catalizzatrici della luce, che va a infilarsi dove i pieni creano ingorghi ed ammassi senza pretesa alcuna di figurazione, tesi soltanto alla percezione, al sentore, all’idea.
Dei dipinti di PG, Dino Baiocco – pittore e gallerista della Galleria Centofiorini, specializzata nella pittura anoggettuale di maggior risonanza degli ultimi trent’anni – diceva che “hanno una bella tensione”, cogliendo l’elemento principale di un’orchestrazione giocata quasi esclusivamente sull’impasto cromatico, sui contrasti e sulle fusioni, sui bagliori a schiarire i neri dei fondali e dei contorni, morbidi, traccianti a volte, e quasi per caso, vaghi paesaggi della mente, forse con un lontano richiamo, altrettanto casuale, a certi esiti del Blaue Reiter e di Franz Marc.
Episodi paesaggistici ogni tanto tornano ad alternare la prevalente scelta non figurativa, compaiono visioni di case ed alberi, soggetti quasi totemici di un immaginario personale muliebre e materno che non si disperde, sebbene oramai sia direttamente il colore a dare linee e masse degli scenari, essenziali, più allusivi che mimetici, portatori di una qualità ventosa della sensazione. Recentemente, l’occasione della partecipazione ad una mostra collettiva sulla questione sensoriale – NOW - No One Way, organizzata da Rrose Sélavy nel giugno 2011 agli Antichi Forni di Macerata – produce una riflessione tematica della pittrice attorno ad un unico specifico argomento, in quel caso il senso del gusto, con la lavorazione di differenti opere contemporaneamente, dalla pittura multimateriale su tela e su tavola all’installazione. 


Papille, 2011(partic.) 

Non è semplice rendere le sensazioni. Il campo è propriamente quello dell’arte ma come si fa a rendere in termini pittorici il gusto di qualcosa? Non la forma, l’aspetto, il colore di un oggetto come una mela, un gelato, un arrosto di carne – tutto questo atterrebbe alla vista – , bensì il loro sapore, l’insieme di aromi, effluvi, consistenze, percezioni. Si tratta di pensare il gusto e allo stesso tempo viverlo istintivamente, poi tradurlo in pulsazioni cromatiche che restituiscano l’intera esperienza di un pasto, suggerendo le singole note e gli accenti di sapore al riguardante che, a prescindere dai formati, può tuffarsi in un dilagare di riverberi sensoriali. 


Desco Bianco, 2011 

Per l’evento PG concepisce una cena a colori introdotta dall’installazione Desco Bianco, un’elaborazione di recupero a smalto e stucco come sorta di ingresso neutro alla tavola ideale sulla quale consumare pietanze cromatiche scelte che, scorrendone i titoli, costituiscono un vero e proprio menù dalle intenzioni sensuali: Aragosta afrodita I e II, Sale (acquatico), Scorze di limone (verde cinabro), Morire di sapore (nocciole e rose), Filtri e liquori (distillati)… una cena di pesce introdotta da Papille, porta d’entrata del sapore, e dispiegata dai piatti di mare fino a dolci ed elisir di fine pasto. Il risultato è intenso, voluttuoso, l’impressione è di completezza e soddisfazione dei sensi, con un lascito avvolgente davvero vicino all’esperienza più edonista del gusto.
La lavorazione a stucco, gesso, smalto, sabbia e composti vari utilizzata per Desco Bianco continua poi ad ispirare PG, attualmente impegnata nel penetrare matericità e purezze, candori attraversati da presenze ed ombre, dove lo spessore diventa dominante e gli strati lattei prendono tele, vetri e cornici, come tempo che si deposita sulle cose, un’azione memoriale che sbiadisce e lascia fantasmi, superfici scabre e irregolari, eco di passate sembianze di cui rimangono accenni di colore e qualche gradazione polverosa. In tutto questo acquista un senso particolare il gesto del recupero, il riutilizzo del supporto, dove la pittura prende tutto, finanche il chiodo d’appendimento. L’ispirazione viene forse dalle haute pâte di Fautrier o di Lavagnino, coniugate a certi vagheggiamenti alla Raciti, ma l’approccio risulta molto rudimentale, dal punto di vista tattile, e poetico, dal punto di vista concettuale, è inoltre un progredire sul cammino battuto sin dagli anni Settanta, con le tele rimesse in uso più e più volte dopo l’incorniciatura, per sfruttarne la massa, la grossezza di certe pennellate seccate, oggi in parte sostituite da gessi e siliconi quando il fare diventa veloce, alla ricerca del dato tattile e di tensioni palpabili, che fanno delle sue opere esperienze plurisensoriali.


Bianco, successioni, 2011 

Di fronte ai lavori di PG si comprende che la pittura non è solo un fatto di vista. Si guarda ma l’occhio trasmette informazioni che si leggono con tutto il corpo e che risuonano particolarmente nella testa e nelle mani, con coinvolgimento, voglia di scoperta, verità della sensazione. 

GIANNI REALINI e il dipinto sonoro
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Gli svizzeri: Cavalli, Dupertuis, Ferrari, Realini"
Galleria Centofiorini, novembre 2011


“Già molto presto mi resi conto dell’inaudita forza d’espressione del
colore. Invidiavo i musicisti, i quali possono fare arte senza bisogno di
raccontare qualcosa di realistico. Il colore mi pareva però altrettanto
realistico del suono.”

Vasilij Kandinskij



Sulle tele, sulle carte di Realini avviene qualcosa.
Ci si affaccia all’immagine bidimensionale e parte un movimento, una serie di spostamenti in direzioni opposte e contrarie, pennellate piccole, parallele, orizzontali in una zona del quadro e verticali, più estese e sottili, in un’altra, poi balzi, sciabolate che puntano l’esterno e scivolano in graffi ritmici, azioni di raccordo, danze segniche in positivo e negativo che sezionano le superfici, aggiungono taches, scandiscono l’insieme con fini teorie di vertebre o accenni di tastiere, contrappunti di colore, giusto un tocco, sopra al bianco, al nero, al grigio.
Sono azioni interne all’opera che guardiamo, azioni dell’artista il cui gesto diventa corpo, volume, tono, immagine che conserva il dinamismo, il vortice intrinseco, e non lo lascia.
Sale in testa Michel Magne e il suo Musique Tachiste, suoni incalzanti, fruscii che accompagnano le spirali, rintocchi sui coaguli cromatici, archi che tengono la nota dove scurisce il fondale, trilli sul rosso, rumore di vetri sul blu.
È un’esperienza plurisensoriale il lavoro di Realini, una musica pittorica, una partitura pennellata, una strumentazione visiva: le opere sono composizioni contemporanee – termini validi in campo figurativo come in quello melodico –, si stendono sulla tela con occhio strutturale ma non perdono quella scintilla che coglie ripetuti accadimenti. L’artista sa percepire l’arrivo della scossa: dipinge vigorosi strati bianco grigi, fa spessore, oppone i neri e quindi porta il gesto all’estremo, lo segue, lo lascia fluire e la rapsodia esplode improvvisa nel giallo, lo lavora, lo sfuma un poco, ancora lo condensa, ritorna al nero e lo scrive, lo incide, respira, pulsa.
Similmente sopraggiungono sussulti rosso arancio, tocchi lavici, ematici, che attraggono l’occhio e in un attimo cambiano e completano la base di solito bipartita.
Queste condotte sembrano assegnare pari percentuali di volontà all’artista, all’incidente pittorico e alla pittura stessa, in realtà è un crocicchio di energie umorali che non oppongono resistenza, anzi si snodano e scontrano sulla superficie, dietro l’egida sapiente di Realini che allaccia, guida, dosa, scurisce e rischiara, bilancia gli alti e i bassi, i toni e i semitoni, le pause e gli attacchi, come un direttore d’orchestra che batte tre volte la bacchetta sul leggio e poi dà il via con impeto al movimento.
È molto facile ravvisare tendenze informali in questo tipo di opere ma con Realini si ha uno scarto in più: materia, gesto e segno sono utilizzati non soltanto come mezzi espressivi di esperienze totalmente interiori all’essere, talvolta sono anche restituzioni di esami visivi, dati però in termini di macchie e linee, come una registrazione fuori fuoco che si basa sulle componenti essenziali dell’immagine. Il risultato è una visione partecipata, filtrata da un passaggio emotivo e da un approccio vitale, con palpiti, fremiti e vibrazioni sonore oltre che corpose.
Ci sono andanti, mezzipiano, mezziforte, che fanno vento sulla tela con le loro evoluzioni, in questa tavolozza minimalista, raffinata, jazzistica, ampiamente spiegata al dilagare luminoso e qualche volta notturna, frusciante, come una puntina sopra un vecchio vinile.




RENZO FERRARI – rosso d’autore
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Gli svizzeri: Cavalli, Dupertuis, Ferrari, Realini"
Galleria Centofiorini, novembre 2011


“Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua verde, l’aria
gialla e il fuoco è rosso, poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena
riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e
giudica secondo quello.”

Paracelso


Le opere di Renzo Ferrari sono da oltre cinque decenni un’autentica fiammata.
Si tratta di un fuoco che mantiene un nucleo di ghiaccio – forse per via dei natali ticinesi che lo collegano alle coordinate nordiche del gruppo Cobra e alla vena folle e visionaria dell’ art brut, o forse per una lucidità innata che nasconde un occhio critico acuto dentro aspetti grotteschi e generose eccentricità – , é un falò delle vanità che spinge nel calderone colori terrosi per partorire (con dolore) sintesi di realtà spietata, masse e volumi da cui salgono prima gli occhi, poi le sagome, sempre più numerose, di un’umanità deformata dal carico psico-empatico che è chiamata a fronteggiare nel quotidiano, schiacciata dal peso simbolico di monitor e televisori che dominano il pianeta con memoria orwelliana.
L’individualismo, le forze sciamiche della natura, le teste di cardo come ritratti spinosi, gli angoli di periferia, abitati da tossici e da un pullulare compresso di anime, ombre spersonalizzate in movimento, contorni catatonici che a volte accolgono un guizzo d’erotismo, altre diventano riflesso di un accadimento di cronaca urbana, si stagliano tutti sui fondi bruciati di tavolozze accese, sui gialli zafferano, sui verdi brunastri, sui vinaccia, i terra di marte e gli amaranto, fino agli slanci più divertiti e recenti dei rossi papavero, solcati da scritte, rallegrati da un misto collage che rende i lavori dell’artista opere d’urto mai banali.
Renzo Ferrari, nella sua opera di rifigurazione dell’immagine, non rinnega un ductus morbido e pastoso d’estrazione informale, al contrario lo coniuga abilmente a motivi ritornanti che uniscono l’idea di un ambiente a quella di figure che lo abitano, siano esse volti deformi e occhiuti che insinuano gli sguardi e trasmettono un’angoscia grottesca alla Goya, o giganti-macchina bullonati dalle teste squadrate e gli occhi fissi, o ancora silhouette nere dai profili colati come vernice di graffiti sui muri, in ogni caso non esiste distinzione netta tra elemento figurale e sfondo: il colore stende, delinea e impasta e poi si lascia scrivere e graffiare, corre istintivo alla tela tra i ritmi tribali del multietnico trapiantato nella periferia milanese ed il gusto street writer alla Basquiat, si altera in slanci cromatici tra l’espressionismo olandese dei Cobra e un tutto striato hundertwasseriano – ma d’intento e risultato più cupi – si concede infine, ultimamente a collage di tema erbario sui quali comunque domina l’impeto, la vampa sempre accesa, l’incendio delle violente tavolozze.
Il colore è il primo attore del racconto ferrariano.
Il dramma dell’uomo – isolato in ripetute terre d’esilio – è affidato in primo luogo al rogo dell’impianto cromatico (certo senza dimenticare la forza tagliente del tratto che emerge con vigore anche nelle carte e nelle incisioni), speziato, rovente anche nei verdi e negli azzurri, spesso giocato sugli ocra e sulle tonalità ambrate, qualche volta buio e fosco con lampi bianchi, ma soprattutto organizzato a contrasto sui rossi, che investono e attraggono con modernissimo sapore pulp.
Il tuffo di Ferrari nelle tinte sanguigne avviene non prima dei tardi anni Ottanta.
In precedenza l’ibridazione segnica e figurale coinvolge anche quella cromatica e, sebbene il colore primario faccia inevitabilmente la sua comparsa (in alcuni casi in maniera poderosa, come nel bellissimo Gaio Power del 1973, fatto dello stesso cremisi che lo circonda), è successivamente che i colori si fanno più emotivi, più espressionisti, dati in larghe campiture sugli sfondi, stesi a contrasto, in un conflitto cromatico – dichiarazione di quello umano – in cui primeggiano intensi carminio e profondi granata, in dicotomia coi grigi e con le gamme aranciate, talvolta scendendo a farinosi bordeaux.
Negli ultimi due decenni la luce sembra aumentata e, ciò che inizia con l’ispirazione africana e con l’energia primitiva dei porpora e pompeiano fantasiosi sulle tele (che riprendono non solo i profili negroidi ma anche lo stile tanzaniano e congolese, pur misto dell’idioma nordico e metropolitano), poi sale di tono e approda al rubino, al veneziano, allo scarlatto, sempre più ardenti, quasi aggettanti: un mare di brace che accoglie le scritte e i collage, rinnova i motifs, cattura lo sguardo.
Renzo Ferrari si spinge avanti, incalza e pressa, orchestrando con divertita sapienza le svariate componenti della sua ricerca, restituendo immagini febbrilmente passionali, siano esse radici o mandragole in nero, siano esse “erbolari” folli e ironici che esibiscono le spine rosse di questa difficile società.




MARCEL DUPERTUIS – anatomia e calligrafia
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Gli svizzeri: Cavalli, Dupertuis, Ferrari, Realini"
Galleria Centofiorini, novembre 2011


“Dal dedalo di gesti, atteggiamenti, grida lanciate nell'aria,
da evoluzioni e giravolte che non lasciano inutilizzata nessuna parte dello spazio scenico,
si sprigiona il senso di un nuovo linguaggio fisico basato su segni e non più su parole”

A. Artaud


Linguaggio fisico, anatomia filiforme, massa tattile e sottile come corpo danzante, sospeso nel vuoto o giacente, esito della propria esistenza, messo a terra dai passi che non vengono, dalle mancanze d’arti, da intollerabili sistemi di gravità.
È il Dupertuis dell’atelier quello che arriva alle grandezze, più ancora di quello dei geometrismi monumentali in acciaio inox degli anni Settanta; è l’artista delle anime di fil di ferro ricoperte di colore scolpito, è l’incisore di segni e aloni di perfetta coerenza ed equilibrio, è l’esistenzialista che incarna i segni, li annoda, li pressa in diteggiature che hanno la liricità dell’essenziale e l’armonia dell’eleganza, anche quando la difficoltà di vivere sforza gli atti e contorce i movimenti di questa stirpe di umanoidi non ancora formati nel corpo ma pienamente sviluppati nelle sofferenze e nell’intelletto.
Dupertuis scolpisce, disegna, dipinge, incide linee continue.
La linea è una scia umana, è l’anima che conduce dall’interno e nell’esterno, è il pensiero che si fa movimento e si libera in evoluzioni ad arco separando e interrompendo l’atmosfera ordinata del vuoto, acquistando progressivamente la leggerezza dei materiali (dal bronzo alla cartapesta) e la purezza dei colori, dalla dicotomia bleu-marron al tout blanc dei dipinti modulari, sezioni reiterate del motivo curvo che rincorrono l’impercettibile variazione infinita di microspostamenti: la semplicità compiuta di una linea che non stacca il pennello e digrada verso l’assenza, verso un’invisibilità che ha sapore zen (Sans titre n.28, 16 dipinti, 2005, acrilico su tela e papier collé).
L’inquietudine interiore dell’uomo, le sue fragilità, le sue goffaggini Dupertuis le mostra apertamente, mettendo in piedi o a terra queste creature esili ma palpabili, più robuste degli omini di Giacometti anche se meno formate, primordiali o residuali nei loro spasmi e fatte di quelle linee che la Richier inscenava tra le membra, forse ricordo di movimenti, eco nell’aria e danza incessante. 



Questi agglomerati, che più spesso sono corpi ma a volte anche muri filtranti e totem e sperimentazioni del segno volumetrico portato al parossismo, trovano nel loro farsi la finezza del minimalismo, che non resta mai stonato e sempre lirico, sempre acutamente intellettuale: c’è quindi un doppio peso da considerare, la gravità dell’esistenza contenuta nella levità di tracce e masse.
Le opere di Marcel Dupertuis sono come i “corpi senza organi” teorizzati da Gilles Deleuze, sono ciò che rimane di corpi organici che con le loro stratificazioni interne hanno ucciso le capacità produttive, sono i corpi senza organizzazione che permettono il passaggio del vento e si fanno campo di tensioni in grado di tornare alle potenzialità del desiderio, nel principio basilare del continuum che cresce, genera, origina, prolifera.
L’azzeramento, la stilizzazione estrema, la spoliazione dell’oggetto plastico, la “necessità d’un oblio totale per rinascere e dunque ricominciare, compiere l’avventura enigmatica del labirinto umano” – scrive Dupertuis – toccano inevitabilmente corde scoperte, come quella costante della cultura svizzera individuabile nella follia: un misto di estremismo cerebrale e senso del grottesco che sa di riso amaro, di calma radicale, di coscienza inquieta. E questa percezione supervigile prende forma dentro spazi metafisici, dentro immensità silenziose ben lontane dal modernismo geometrico degli inizi, immerso nella natura fisica: le sculture, le acqueforti lavorate con acquetinte e puntesecche, gli acrilici, provano tutti un rapporto di purezza con lo sfondo, con l’intorno, con le profondità incommensurabili ed è come se questa capienza cedevole del vuoto fosse la scena del dramma esistenziale che ogni giorno si consuma, fisico e straniante nei contorni maneggiati del bronzo, della ceramica, della cartapesta, e fluido o calligrafico nei dipinti e nelle carte, date per coppie cromatiche armoniche o in contrasto, molto spesso dagli esiti estetici raffinati e mai illustrative, strumenti basici di un ipnotico “teatro della crudeltà” alla Antonin Artaud.




MASSIMO CAVALLI – analitico sintetico
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Gli svizzeri: Cavalli, Dupertuis, Ferrari, Realini"
Galleria Centofiorini, novembre 2011


“Costruisco combinazioni di linee e di colori su una superficie piatta, per esprimere una
bellezza generale con una somma coscienza. La Natura (o ciò che vedo) mi ispira, mi mette,
come ogni altro pittore, in uno stato emotivo che mi provoca un’urgenza di fare qualcosa, ma
voglio arrivare più vicino possibile alla verità e astrarre ogni cosa da essa, fino a che non
raggiungo le fondamenta (…). Credo sia possibile che, attraverso linee orizzontali e verticali
costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da un’alta intuizione, e create con
armonia e ritmo, queste forme basilari di bellezza, aiutate se necessario da altre linee o curve,
possano divenire un’opera d’arte, così forte quanto vera.”

Piet Mondrian



Un percorso coerente. Una progressione fedele, di alto grado meditativo, una capacità di penetrazione ottico-percettiva sorprendente. Un lavoro a togliere, una spoliazione che avanza fino all’elemento ultimo, e poi un sovrapporre, muovere, tirare, dislocare ad libitum, quasi fino ad esaurire le combinazioni possibili.
Massimo Cavalli punta il suo intero cammino artistico sull’essenziale, concentra il suo occhio espressivo sulle fondamenta dell’immagine e, dai residui mimetico-materici d’impronta ultimonaturalista, cava masse per via di prosciugamento, risalendo all’armatura che le sostiene, ciò che sta dietro, ciò che sta dentro, risolvendo ogni questione figurativa in una tensione lineare e ritmico-spaziale che ha merito supremo nel tratto, nel segno.
Rose, girasoli, rocce, tramonti e figure lasciano velocemente il campo alle strutture vegetali, ai motivi, alle prospettive, alle incidenze, tutti termini che, nelle titolazioni, testimoniano un andare della poetica e dell’attenzione verso l’astrazione, verso l’individuazione dell’ossatura di un’immagine che gradualmente sovrasta il discorso iletico per imporsi come sovrana, tesa ad una vigorosa asciuttezza dei mezzi e una bilanciata complessità delle configurazioni, che stupiscono per l’incredibile forza dei tratti e dei profili e per l’eleganza cromatica di alcuni sublimi accostamenti. 
Né paesaggistico né figurale, e nemmeno anoggettuale alla maniera degli informali, Cavalli ha un occhio acuto che passa ogni sembianza ai raggi x e va diretto all’intelaiatura, a quei profili, agli staccati, ai dati sintetici ravvisabili, a ben guardare, anche nelle pitture più cremose, in quelle fasce larghe di colori giustapposti che agli inizi già sanno esaltarsi a vicenda e puntare ad un valore autonomo, così come nella verticalità di certe altre produzioni che rispondono al richiamo dell’accosto, della sovrapposizione minima eppure elettrica, della vivezza insita che riluce sui fondi scuri, carica di un luminismo raffinato e prezioso, come invetriato. 
Dunque la misura, l’equilibrio, il ritmo sono gli strumenti con cui l’artista filtra l’immagine e la restituisce a livello di linee, righe, graffi, solchi, fasci, organizzati a chiasmi o in sistemi di parallele, giocando tra il positivo e il negativo, appoggiandosi su componenti e motivi peculiari – come l’elemento circolare semiaperto e concatenato – che sanno tornare a distanza di tempo frutto di evoluzioni metamorfiche le quali, una volta di più, ci mostrano l’accurata, paziente o furiosa analisi di ogni variazione possibile. 
È chiaro che, nonostante l’artista sia poliedrico ed affronti tutti i mezzi bidimensionali provando ogni medium, questa squisita indole segnica produca capolavori di particolare riuscita nell’arte incisoria. Massimo Cavalli è maestro grafico, le sue acqueforti restituiscono la poesia e la dedizione del lavoro certosino, trasmettendo al contempo un carattere davvero mordente, col vibrato nervoso, la sottile inquietudine, la forza dei solchi diversamente incisi sulle lastre di rame o su quelle di zinco. 
La sapienza compositiva e lo sguardo allenato alla vista d’insieme lo portano a risultati di grande finezza nelle tecniche miste, dove l’unione con l’acquatinta genera morbidezze impalpabili e sensibilità vicine alla bellezza di certi acquarelli cerulei vagamente malinconici, e dove la puntasecca affonda artigli capaci e caparbi, ricchi di spezzate e saette e sistemi d’aghi tutt’intorno.
Una ripresa delle fasce larghe e un’eleganza cupa alla Pierre Soulage, con effetti di rilievo, la troviamo nelle litografie o nei collograph, dentro affascinanti trasparenze nere e liquide in cui è chiaro il lavoro luministico dell’artista ticinese, che non oppone le ombre alle luci, piuttosto ne fa una questione di maggiore o minore visibilità, aprendo varchi o squarciando le peci come muta il cielo dentro un temporale. Ma ci sono anche tinte forti da considerare, rossi vermigli, verdi bruni, ocre e blu oltremare accendono splendide litografie a tre colori, dagli esiti serici e vellutati. 
Questo disegno analitico-sintetico ha una decisa origine razionale, è frutto di una concentrazione, un’applicazione tale al segno, alle scansioni, alle proporzioni che Cavalli sembra vittima di un assillo interiore, ed è una spinta di caratura cerebrale ma anche emozionale, specie in quei tratteggi veloci (anche nei carboncini) e in quelle nervature che appaiono più istintive, come tagli di lama o impalcature di steli.
Ci sono rapporti di forza in tutte le cose: il visibile si presenta secondo diverse vesti ma all’interno è mosso da tensioni che lo animano, che sorreggono, come le particelle elementari, come i fonemi in una frase, come le ossa in un essere umano unite al pensiero che vi scorre in mezzo e produce guizzi, slanci, reti di elettricità. Queste radiografie di Cavalli permettono una visione ed una conoscenza ulteriori, a metà tra un cesello orafo e le macchie di Rorschach, a metà tra la composizione pura e tutti i suoi significati, mostrandoci la vita che pulsa sotto l’ultimo strato di pelle.




MARIO RACITI e l’universo antinomico
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, settembre 2011
articolo per conferenza Mario Raciti e l'ambiguità dell'ignoto"

Galleria Centofiorini, ottobre 2011

“Cosa v’è in un nome?”

Romeo e Giulietta
(II, 2)
William Shakespeare



Categorie. Forme sensibili. Forme-concetto. Un universo di termini, parametri, specificità che ci
aiutano a fare ordine, classificare, riporre per poter all'occorrenza estrarre.
Dire, indicare. Denominare.
È una tendenza alla titolazione, alla didascalia, la nostra, fa parte del processo di razionalizzazione.
Chiamare per identificare. Specie se il campo è quello delle arti visive.
Ecco la motivazione delle iconografie: il riconoscimento, l’assimilazione.
Ma c’è un momento in cui tutte le regole conosciute vengono sovvertite, c’è un momento in cui l’uomo – in quanto essere creativo – necessita di una rivoluzione dei linguaggi, solitamente in risposta a un richiamo del contesto socio-culturale, e allora la sommossa è nei mezzi (come auspicano gli artisti più all’avanguardia dell’Informale, gli Spazialisti ad esempio) o magari nei contenuti (ripensare l’opera restando dentro l’opera, mutare l’espressione senza mutarne gli strumenti, come sostengono i fedeli alla Pittura pittura), comunque il cambiamento avviene, anche se nell’intimo di una scelta artistica del tutto personale.
I decenni in oggetto sono i più volubili dell’intera storia dell’arte, i Cinquanta, i Sessanta, i Settanta, si spingono in tutte le direzioni, fortemente contrastate e sottilmente teorizzate, danno origine a incredibili coesistenze di realtà difformi e dissonanti eppure validissime perché tese a restituire i due concetti fondamentali della moderna critica d’arte: la visione nel mondo (Weltanschauung) dell’artista e lo spirito del tempo (Zeitgeist) che egli vive.
L’Espressionismo Astratto americano, l’Informel europeo e tutto quanto sguscia da questa agitazione immaginifica che azzera figurazioni e simbologie per ridurre tutto a termini primari e sostanziali quali colore, gesto e segno, sconvolgono il mondo delle iconografie. Lo fanno sulla base di quanto avvenuto in precedenza, instradati certo dall’Astrattismo, dal Surrealismo, dal picassismo in generale, ma in piena e violenta risposta a sensazioni e percezioni di quel momento storico e sociale. L’immagine smette progressivamente di essere figurale per darsi in termini eidetici (e un'immagine mentale è eidetica quando possiede le caratteristiche della cosa percepita – non vista), dentro emozionalità iletiche o disidratazioni segniche, comunque lontana da denominatori comuni, molto più intima e al contempo molto più esposta. Silenziosa e gridata.
Si tratta di una spontanea soppressione linguistica, ma anche di un incremento delle possibilità.
Dietro questo tracciato sottile si ravvisano le scelte ed il percorso di Mario Raciti, artista abbastanza in linea col suo tempo da rifiutare i razionalismi ma non troppo da conformarsi alle tendenze modaiole e commerciali dell’arte. Egli preferisce il segno alla materia, il grafismo misto di pittura ai mezzi alternativi e recupera un certo tipo di figurazione dentro il dilagare anoggettuale, come impastando e annodando le ispirazioni che girano intorno all’arte per farne un linguaggio atipico, che non è tanto codice, quanto traccia, intuizione, suggerimento.
Arte, sensazione, cortocircuito della ragione, apertura al campo delle possibilità, dicevamo.
Raciti recupera elementi pulsanti di un io dispiegato nel tempo, li guarda spogliandoli delle sovrastrutture e li riduce in segni ingenui – ma non innocenti – che, sostenuti da una pittura intangibile come un simulacro, rendono l’opera una stenografia emozionale.
Questa semiotica però rimanda ad una significazione altra, ad una rivisitazione dell’immaginario che l’artista compie deliberatamente per restituire all’uomo “la libertà di una sua misura” – egli dice – “non come mezzo solipsistico ma come palestra per esercitare la complessità delle strutture antropologiche.” L’uomo trova nel quadro l’imprevedibile, l’inafferrabile e dunque l’ineffabile che caratterizza le sue stesse percezioni interiori, infinite, indicibili e la sua condizione è libera di sentire e interpretare perché non è veicolata da costrizioni semantiche.
A Raciti interessa l’ignoto, l’ambiguo, la visione, che a volte è più suono che figurazione (“Odo io la luce?” si chiede il Tristano di Wagner) e allora la costruzione dell’immagine si spinge oltre, abbandona “le chiuse stanze della logica per trasmigrare all’aperto del desiderio, fornita di altre certezze”.
Anche i titoli lasciano le immagini indeterminate, a ben guardare, perché cosa sono le Presenze-Assenze? I Misteri? Le Mitologie? E questa ultima produzione che risiede sotto il nome di Why?
“La pittura è un fantasma”, scrive l’artista, e le sue opere sono aperte – per dirla con Umberto Eco – sono strutture complesse di campi possibili, sono sussurri, fruscii e brevi accenni di spiritelli, teleferiche, fari, giostre e sonde (se facciamo riferimento alla prima produzione) vaganti dentro spazi illimiti, dentro il nulla illuminato, dentro il bianco rarefatto e sacrale, seguendo la scia di ricerche che pongono sullo stesso piano – quello bidimensionale della tela o delle carte – poesia, pittura e musica in accezione psico-filosofica, per arrivare a toccare e rappresentare l’irrappresentabile, lo spazio utopico, il luogo dove accade tutto e nulla e dove l’idioma non è più lo stesso: “di là, dove erano confluite tutte le immagini, discendevano i fantasmi, non più cose nominabili ma visioni antinomiche e complesse (…) e la pittura doveva fare i conti coi suoi ancoraggi tradizionali”.
Mario Raciti si spinge a fondo, all’interno, compie un viaggio in un cosmo velato e nebbioso, che si disegna e si tinge di vaghezze, emette suoni delicati, parla lingue amene e luminose (specie nei pastelli), e non smette mai di farsi domande, sondare e affrontare, annullando tutto il conosciuto e significando nuovamente, senza sosta, all’infinito.

“Il vero poema non è più la parola
che racchiude dicendo, lo spazio chiuso
della parola, ma l’intimità respirante,
per cui il poeta si consuma per accrescere lo spazio
e si dissipa ritmicamente: pura accensione interiore
attorno a nulla.”


(Maurice Blanchot)





Tre scatti di Enrico Maria Lattanzi
presentazione per la 54a BIENNALE di VENEZIA
Padiglione Italia 
Regione Marche – Città di Urbino
di Marta Silenzi






























TRACCE
stampa ai pigmenti, 2004, 70x100 cm 


L’opera ritrae l’inanimato dentro un silenzio assorbito e trattenuto dalle ombre confuse, occultato dalla luce. Tuttavia permane un suono naturale, legato alla vita, legato all’uomo, un eco di ciò che è stato e che ancora è, ma trasformato. Detriti lasciati da un mare invernale, residui di sabbia, agglomerati e incrostazioni, fili, schegge che una volta avevano forme e funzioni, legni che erano rami, scorie che erano foglie, elementi che erano vivi e che oggi sono vissuti. Più che una natura morta è una natura usata, frantumata dal proprio percorso e riassemblata dal caso. È una riflessione sulla trascorrenza, l’azione del tempo, la parabola biologica che, quasi in un ossimoro, va a comporre nell’immagine ciò che è fondamentalmente una scomposizione della materia. 

A MIO PADRE
stampa ai pigmenti, 2003, 70x100 cm

Un’immagine che è iconografia d’affetti. Ricordo, evocazione, un risorgere di suoni e gesti espressi dalla luce piena che però non esclude le ombre, così come l’ordinato assetto compositivo non toglie la vibrazione empatica di carattere memoriale. Stoffe ripiegate e strumenti di sartoria sono elementi eidetici di un racconto complesso, mentale-emozionale, che si dipana importante ed intenso a partire da una struttura pulita, elegante, testimone dell’innescarsi di una memoria involontaria proustiana e del cauto mostrarsi delle più fragili intimità.

L’AMORE RIFIUTATO
stampa ai pigmenti su carta puro cotone, 2011, 70x100 cm

Un percorso molto intimo e sofferto si condensa in quest’immagine di forte impatto e lettura articolata. Ci si accosta all’iconografia percependo un dissenso, una reazione che non si manifestano nella volontà della rottura, nel rifiuto dell’emblema spirituale per eccellenza da parte del fotografo: al contrario l’artista si fa cassa di risonanza e sgomento testimone di un universo artistico che oggi svilisce il messaggio d’amore e di speranza infiniti legati al Crocifisso, simbolo che invece ha ancora il potere di superare i meri discorsi religiosi o clericali per arrivare a questioni supreme e quanto mai attuali di fede e umanità.
Il gusto di pg 
mostra NOW - NO ONE WAY 24 giugno – 2 luglio Antichi Forni, Macerata
sezione GUSTO, opere di pg
di Marta Silenzi

È un patto segreto tra gli aromi, un accordo clandestino, una congiura di sapori inscenata per via di spatola e pennello ai danni del fruitore che, incauto lungo un percorso sensoriale ad alta possibilità di combustione, cade irretito nel calderone saporoso e tonale del ‘gusto’ come lo sente pg. 


L’ondata sapida parte dalle labbra, sulla lingua, e si scioglie attorno alle papille gustative che crescono come fiammelle nutrite di tinte e gradazioni cibarie, si diramano in succose paste alte a trattenere il piacere culinario dentro cavità, discese e avvallamenti materici, in un grumo rosso ciliegia, lungo una scia dorata di sciroppo d’acero nello spazio quadruplicato del supporto. L’andirivieni della degustazione è una tortura estatica cui corrisponde l’agitazione della superficie tesa a cogliere miriadi di successioni tonali, tante quante sono le possibili variazioni di sapore durante la masticazione, fino all’atto eccelso e conclusivo del deglutire. 


Ad un ipotetico desco bianco, cui si accede da una porta che è l’ingresso surreale per l’ambiente del sapore, dentro stoviglie e bricchi immacolati – come fossero contenitori neutri e cerosi di un variopinto contenuto – s’infiamma l’universo culinario, distinto in picchi densi e sostanziosi, furie inebrianti, vapori, atmosfere che fanno del gusto un senso privilegiato, composto in percentuali anche da tutti gli altri: scortato dalla vista invogliante, spezzato dalle mani che portano il cibo alla bocca, legato indissolubilmente ai profumi, agli odori e capace di provocare squilli e tintinnii nelle orecchie fino ad arrivare al cervello, nel capriccio di un’apoteosi sensoriale. 


Il tema intrinseco dell’eros, dell’afrodisiaco è associato alle gustosità saline, nella veste infuocata e danzante di aragoste afrodite, il cui corpo di crostaceo è appena accennato in un angolo del massoso ciclone informale che è la costante scelta base della pittrice; le due versioni mostrano il corposo interno bianco del pesce reale a contrasto con la scocca lucida e attraente, a restituire morbidezze interne e scabrosità esteriori del più semplice e prezioso dei sapori marini.


Sul lato opposto del focoso artropode, pg allunga una discesa di sale (acquatico) dal carattere lunare. Sinuosità e perlescenze marine, vibrazioni coralline, squamature argentee emergono ad ondate nell’idea magari di un’orata in crosta di sale o di un branzino al cartoccio. Permane intorno il ricordo di pacifici isolotti esotici, chiassose pescherie di paese o vigorose profondità mediterranee.


Robusta ed acerba s’inserisce sul palato, ballando sulle gengive e pizzicando nella gola, l’aspra presenza delle scorze di limone in ascendenze e freschezze di tonalità verde cinabro; una pulizia della bocca affidata ai giallo-verdi che scuriscono agli estremi in corrispondenza del retrogusto amaro ed acre dell’agrume, spingendosi a volte però fino ad assaggi biancastri, coniugazioni con altre pietanze, forse un po’ di zucchero di limonata. . .




È poi tempo di dessert, di voluttuosi cedimenti.
Predisposto al rapimento il riguardante arriva al vertice del desiderio risvegliato dalle glasse al cioccolato pasticciate ed aromatizzate tra nocciole e petali di rosa, e crede di morire di sapore davanti alle paste stemperate sulla tela, annodate e liberate in accenti purpurei, succose da non riuscire a trattenere la salivazione profumata, sensuali da sciogliere le inibizioni e spingere ad affondi di mani oltre che d’occhi nella superficie materica fin quasi al bassorilievo.


Resta un momento ancora da gustare.
È l’ora della condivisione o piuttosto del raccoglimento. È una concessione che funge da prolungamento della piacevole esperienza, quando a radunare tutti gli aromi assaporati si indugia nella scelta di una chiusura, prima del sipario sull’ultimo atto.
L’animo, calmato e disteso, scivola in trasparenze e velature dalle nuances tenui e fiorite di filtri e liquori (distillati), come a completare l’incanto di una malia cha ha deciso di subire consenziente; pg procede nello spazio della tela per spatolature chighiniane, delicate, come sovrapposizioni di elisir di sottobosco: grappa al mirtillo, acquavite alle more, sidro, siero di prugna, vinaccia . . . A fine percorso dunque ci si desta dall’incantesimo illusivo di questa pittura che riesce attraverso un linguaggio immaginifico a restituire percezioni non visive, e si deve comprendere e tenere a mente la particolare e non semplice sottigliezza di poter intendere e tradurre nel codice pittorico questioni astratte, sensazioni fisiche assolutamente non figurative. È un cosmo ardente, poetico e sensorio quello di pg, capace di riempire gli occhi e di lasciarci affamati.   
PIERLUIGI LAVAGNINO – il tempo ritrovato
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Pierluigi Lavagnino: l'attesa del ricordo"
Galleria Centofiorini, maggio 2011



«la réalité vivante n'existe pas pour nous tant qu'elle
n'a été recréée par notre pensée»

Marcel Proust



Tra il 1909 e il 1922 Marcel Proust scrive i sette volumi di un’opera titanica, frivola e insieme intimistica, un capolavoro letterario in grado di ritrarre ironicamente un’epoca e tracciare sottilmente un percorso interiore che dall’esterno arriva alle profondità umane per mezzo della memoria, dietro l’obiettivo di andare Alla ricerca del tempo perduto.
Pierluigi Lavagnino (1933-1999), pittore ligure di grande sensibilità, conosce l’opera di Proust in età giovanile e sembra intenderla, interiorizzarla ed assumerla in qualche modo come dictat per il proprio itinerario pittorico. Dipingere è una vocazione ed un mestiere, anche contro una diversa volontà paterna, anche contro ristrettezze e difficoltà economiche; essere è dipingere e dipingere è una recherche come quella proustiana, un partire ed un andare, diretto agl’ineffabili meandri dell’Io.
L’esperienza sensoriale è il punto di partenza, un’attrazione inequivocabile per il dato naturalistico, una predilezione per le gradazioni verdeazzurre, dentro le quali si nasconde la luce, quel giallo rosato dei cieli in apertura o in chiusura di giornata; alle acque, alle terre, alle chiome e alle fronde subentra però presto un elemento che in-distingue, che attenua i contrasti, che smorza i dettagli e si dedica con più forza al volume, aumenta la materia, addensa, ricopre, fa livelli così come lavora il tempo, come opera la memoria.
Il mondo scorre, si succedono epoche, voghe e tendenze, Proust ne dà un acuto ritratto innervando tutta la Recherche di leggerezze e vanità mondane della sua epoca; Lavagnino le rifugge, il suo percorso non si allinea alle mode del momento, egli mette a fuoco i suoi interessi e si spinge in avanti solitario e determinato – “Vi sono periodi di pausa nei quali la pittura sembra volersi nascondere, mimetizzarsi per lasciare spazio, o meglio dare corda alle varie retoriche che possono assumere le vesti più svariate (…) ma è proprio allora, quando la pittura si ritrae dalla mischia, che essa diventa più libera, ancora più efficace. Nel suo silenzio si rivitalizza e sottentra poi rapida, con la sua lunga ombra a rioccupare il suo ruolo primario (…). Alfine è lei, la pittura, lo strumento attraverso il quale tento di chiarire la mia visione, in un’aspirazione a cogliere il profondo, essenza dell’immagine, non attingendoli nell’arido pensiero concettuale” (Pierluigi Lavagnino) –, ma anche nel più chiassoso presente arriva il momento della solitudine, l’istante della penombra, al chiuso, quando s’innesca lo scatto della “memoria involontaria” e qualcosa richiama una sensazione dal passato: per Proust sono le madeleines nel tè, i campanili di Martinville, la siepe di biancospini a Balbec; per Lavagnino sono i quadri, le tele dipinte strato dopo strato che all’improvviso lasciano affiorare la visione vissuta sensorialmente all’aperto e rievocata in studio, attesa dentro la pittura.
Il quadro – che sempre più alla maniera di Fautrier si costruisce come muro, poeticamente materico, depositario degli impeti e degli assalti dell’animo – è il luogo dove si fondono materia e memoria, dove avviene la resurrezione di una sensazione passata che la pittura ha il compito di tradurre, e l’artista è lì, teso a cogliere il manifestarsi dell’accadimento, perché, come dice Ruggero Savinio, “Che cosa significa essere visionario, se non rimanere in ascolto, mantenere desta l’attenzione per riconoscere l’altro, se appare?”.
Queste apparizioni hanno una volontà autonoma, Proust le chiama intermittences, ed il loro rivelarsi determina un sorgere del passato sul presente, con una conseguente vittoria dello spirito sulla materia, ecco il perché del piacere che lo scrittore francese ogni volta ne trae: i “pavés assez mal équarris” del cortile dei Guermantes gli svelano la sola felicità possibile, il ritrovamento di sé nelle cose e nei luoghi, fuori del tempo, e con un tale grado di gioia da rendergli indifferente anche la morte. Siamo in un ambito che sfonda i limiti, che supera la ragione e s’immerge nella sensorialità, in un tipo di immaginazione – la rievocazione del passato appunto – che non è mai solamente riproduttiva ma anche nuovamente creativa. È il medesimo episodio che si compie ripetutamente sulle tele di Pierluigi Lavagnino, dentro una striatura pastosa che secca sulla superficie come una ferita, dietro il disporsi nubiforme dei volumi anoggettuali, sotto le scabrosità e i graffi murali nati dalle più soavi modulazioni cromatiche e luministiche. 
Come Proust “condanna ogni forma di piatto realismo e dà alla creazione letteraria la funzione di fissare ed eternare le conquiste immaginative, i recuperi della memoria, la vittoria sul tempo” (Luigi De Bellis), così Lavagnino eterna sulle tele, tra le stratificazioni del suo lento farsi pittorico, l’emergere di scritture memoriali che assumono l’aspetto di un grumo, un addensamento di colore, una rugosità, un segno primordiale sopra la stesura amabile delle tinte e delle pennellate. Talvolta il ricordo è più descrittivo e torna a richiamare fronde, cieli e marine dei suoi luoghi, velandoli però del codice Informale che toglie definizione esattamente come il tempo attenua, sfoca i contorni, si avvicina alle masse e lavora per via di cancellazioni e coperture, anno dopo anno, strato dopo strato.
Non a caso l’artista ligure chiama molte delle sue opere degli anni Ottanta Sottoscritture o Scritture cancellate, perché è così che lavora la memoria e l’anamnesi produce immagini impostate sul recupero di quelle sensazioni, che partono dal dato empirico, figurale o paesaggistico, per arrivare alle più nascoste interiorità dell’essere cui gli è spesso impossibile dare un titolo.
Nell’arco delle oltre tremila pagine della Recherche Proust costruisce il suo viaggio “come un’ascesa e quasi come un’ascesi, un passaggio dall’apertura a una raffinata mondanità allo scavo verticale in direzione dei più fondi valori interiori” (Luigi De Bellis); Lavagnino si muove similmente, promuovendo una vittoria della memoria sul lineare scorrere del tempo, provocando pittoricamente fratture di superficie che esprimono un accadimento senza doverlo raccontare, passando da un piano evocativo a un piano di riflessioni che vanno a definire il gioco sensitivo ememoriale.
La grande affinità, certamente elettiva, tra l’opera proustiana e quella di Pierluigi Lavagnino si ravvisa quasi interamente nell’ultimo volume della Recherche, Il tempo ritrovato, in cui lo scrittore si accorge che il ricordo del passato è percepito diversamente rispetto al vissuto, è il riecheggiamento a provocare una maggiore gioia ed è in relazione a questa che viene presa la decisione di scrivere: per far risorgere il passato e attingere ai suoi infiniti poetici risvolti; analogamente l’artista sceglie la pittura per farne linguaggio della memoria, le paste alte e le inflessioni tonali come tracciato dell’avvenuta emissione, “il nostro fragile io”come “l’unico luogo abitabile” (Marcel Proust).







ph. esposizione Galleria Centofiorini in occasione della conferenza.