Paesaggi all'acquaforte
Bartolini Ciarrocchi Morandi
di Marta Silenzi
testo in catalogo della mostra omonima
Galleria Centofiorini
14 luglio - 31 agosto 2012
(*pubblicato anche nel catalogo delle mostre di Popsophia 2012, p.43)


Ci sono terre ricche di panorami, vedute di campagna, scorci paesaggistici genuini, atemporali, che non si confondono con discorsi futuristici di pannelli solari ed energie rinnovabili, che mantengono un’aura d’Arcadia, evocano i calori diurni delle stagioni, gli odori in salita dai terreni, i suoni e i mormorii della natura diffusi dentro silenzi infiniti e distanze profondissime. Ci sono immersioni ancora possibili in queste lande dove l’orario continua a scorrere secondo ritmi antichi, luoghi puri dove ritrovare la calma e piccoli prodigi dimenticati dietro le frenesie cittadine. L’Italia centrale preserva svariati percorsi agresti di vita rurale in cui recuperare sane sensazioni bucoliche e solipsismi emozionali, lunghi cammini per nuovi situazionisti, voli improvvisi di selvaggina e radure e filari d’uva a perdita d’occhio e a perdita d’identità.
Lo stare all’aria aperta è connaturato all’uomo, influisce sugli umori, amplifica il suo sentire, lo apre a dialoghi interiori in grado di elevare le percezioni, lo porta a cogliere accenti poetici tanto alti da renderlo strumento e cassa di risonanza di questo riverberare d’echi e scintillii della natura: ecco la ragione della scelta del plein air, quel calarsi nella terra e tra le piante di pittori e poeti, dagli Impressionisti a Walt Whitman, dai Macchiaioli a Gabriele D’Annunzio.
Se poi si passa all’incisione, a questa tecnica complessa, che prevede necessariamente passaggi di realizzazione in studio ma che lascia alla mano dell’artista il potere di afferrare l’istante in essenzialità di luce e di linee, le cose si fanno magnifiche ed intime.
Molti maestri si cimentano nell’incisione, scegliendo via via, a seconda dei risultati cui tendono, il rilievo delle matrici in legno – le xilografie, dal segno spesso e i neri intensi –, il piano delle pietre le litografie, dalla granulosità tipica e il senso chiaroscurale diffuso – o le tecniche in cavo su metallo – le incisioni dirette, con le spine del bulino o della puntasecca, graffianti, dettagliate, da cesellatori; o quelle indirette: l’acquaforte, l’acquatinta, la vernice molle.
L’acquaforte è tra le più antiche e le più amate. Il nome lo prende dall’acido nitrico, che ha il compito di scavare i segni tracciati dall’artista sullo strato di cera della lastra di rame o di zinco. Già da questo si comprende quanto sia complicato il procedimento, quanti parametri debbano essere provati e valutati dall’incisore prima ancora di incavare quel disegno che andrà inchiostrato e stampato in controparte. L’occhio coglie l’immagine, la mano la traduce in segni ed essenzialità “a togliere” sul supporto, in un disegno al contrario, poi immerso nella morsura dell’acido che, con le dovute tempistiche, allargherà e scaverà quei tratti che in seguito riceveranno l’inchiostro e attenderanno la pressione del torchio per realizzare la stampa.
Molti pensano alle incisioni come ad un’arte minore. Alcuni la confondono addirittura con l’immagine tipografica. Il problema lo crea il pensiero della riproducibilità, la tiratura: il fatto che possano esserci più esemplari insinua l’idea che non siano opere originali, e certo ci sono stati casi clamorosi di fogli firmati in precedenza su cui sono state applicate stampe non autentiche, ma qui, e nella mostra che vado a presentare, parliamo di una squisita ricerca di purezza e perfezione del disegno perseguita con la più antica tecnica calcografica, che per eccellenza genera opere tra le più raffinate e di cui le Marche sono punto nevralgico grazie alla presenza della rinomata Scuola del Libro di Urbino.
Tra gli incisori se ne sono scelti tre dei più importanti, tra le loro incisioni quelle di soggetto paesaggistico, per celebrare il ricordo di luoghi amati, per mettere a confronto gli stili e la crescita incisoria e per mostrare quanto vissuto e sensibilità possono celarsi dietro segni, morsure e stampe.
Bartolini e Morandi condividono lo stesso periodo storico. Bartolini e Ciarrocchi le origini marchigiane. Ciarrocchi alla Calcografia Nazionale di Roma si trova a stampare le matrici degli altri due grandi maestri suoi predecessori. I loro nomi s’intrecciano e così la loro arte.
Luigi Bartolini (Cupramontana 1892 - Roma 1963), temperamento impetuoso, creatività multiforme e inarrestabile, è un artista sanguigno, libero da ogni vincolo, che preserva una razionalità compositiva entro la quale però si muove spontaneo, cogliendo l’attimo della parola scritta come della tinta scelta, e così pure del segno impresso: se ne va nelle zone di campagna con le lastre sottilissime nella sacca per usarle una dopo l’altra in progressione, anche al rovescio, battendosi “come un cavaliere di ventura, disegnando”, fino ad ottenere la figurazione migliore, da completare in studio con una morsura incauta, nella quale spesso brucia le dita, per rifinire la composizione con la punta delle forbici o del compasso (dice: “Io ho combattuto sul Carso e sul Piave: mi sembra che costi più un’acquaforte che una battaglia: ossia che sia più tempestoso incidere un’acquaforte che partecipare ad un’azione di guerra”).
È un perfezionista che se ne infischia della metodologia e persegue la sua perfezione, un eterodosso della tecnica che quando incide vede “le cose angelicarsi”, si fa prendere dalla febbre; è un passionale perso nell’incanto della sua visione di boschi, di case e di fonti con le lavandaie, paesaggi semplici e sentimenti forti, resi col guizzo del tratto, sempre più rado, schizzato, vibrante e nervoso, con grandi respiri di bianco e indagini di luce: una Strada d’Ancona del ’42 ci concede appena la vista delle linee collinari e qualche albero nel mezzo, documento della conquista bartoliniana di questa “maniera bionda” che in prove precedenti è invece detta “nera”, col tratteggio più insistito, il chiaroscuro che sottolinea i profili di città alte sui poggi e scurisce i tetti della provincia, addensa le ombre tra gli alberi o nelle cavità dei loggiati con effetti di macchia tendenti al pittorialismo (Fonte San Giorgio, 1930; Camerino Marche, 1926).
Gli si rivendica un parentela con la tradizione naturalista italiana dell’Ottocento e uno sguardo alle stampe di Rembrandt e Goya forse più evidente nelle nature morte, ad ogni modo l’occhio sensibile del maestro coglie e ricrea sulle lastre – incise in quantità prodigiose ma stampate in tirature molto limitate – scenari intimi di una vita tanto quotidiana da farsi poesia, con il gusto per il dettaglio ma non per la descrizione che cede sempre il passo allo sguardo d’insieme, alla linea sintetica e vigorosa, oscillante quasi tra espressionismo e non-finito.
Le acqueforti di Bartolini presentate in mostra vanno dal 1921 al ’42 e indicano come l’innata sapienza compositiva, che rifiuta la meditazione sul disegno, passi ad ariosità e sintetismi sempre maggiori, coniugando tenerezze ed asperità del linguaggio, e rimanendo tuttavia costante nell’affetto per il paesaggio marchigiano, un po’ ricordato un po’ immaginato anche a distanza, sempre vagheggiato con ardore e insieme cura affettiva, entro i due estremi emozionali caratteristici di questo artista di rara qualità ed originalità, uno degli “spiriti bizzarri in tempi inquieti” di cui parla Roberto Longhi.
Di pari intensità ma opposta resa incisoria è la sensibilità di Giorgio Morandi (Bologna 1890-1964).
Gli anni sono gli stessi, l’Italia è sempre quella centrale, ma ciò che è furore ed impeto incontenibile in Bartolini, è inquietudine, calma imposta e vibrante in Morandi; ciò che è eccitazione subitanea e segno nervoso nell’uno, è meditazione, studio, trascorrenza temporale nell’altro. La spropositata produzione di acqueforti di Luigi Bartolini – pur con la consapevolezza che “ per inciderne dodici buone ne ho incise trecento, quattrocento cattive” – contrasta con il corpus rigorosamente selezionato dal maestro bolognese: appena 117 lastre, con qualche aggiunta per un ritrovamento post mortem, che testimoniano quanto l’artista sia concentrato sul fare, sul lavoro artistico, sulla ricerca dell’equilibrio compositivo entro cui si dispiega il tremolio tonale; anche Morandi guarda a Rembrandt, come guarda al Parmigianino, Barocci, Annibale Carracci, ma con indifferenza verso i loro soggetti, riservando invece tutta l’attenzione al loro modo di condurre l’acquaforte.
Incisione e pittura sono parallele, anzi spesso la prima è sperimentale in termini di chiaroscuro in funzione della seconda ma non per questo condotta con meno attenzione, ed è evidente come tutta l’opera morandiana sia di contenuto ermetico, con la scelta di soggetti umili che nella loro intimità silenziosa di estrazione metafisica diventano infinitamente poetici ed universali. Vale per le note nature morte come anche per i paesaggi: l’azione di trasfigurazione del reale è la stessa, quell’aura atemporale conferita dal cadere della luce sulle superfici, dal quietarsi dei suoni nelle campagne abitate dai venti ma non dagli uomini, in ore del giorno che sembrano attese di un accadimento.
Dopo le prime prove incerte del ’13, del ’15, dagli anni Venti si rivela tutta la qualità della tecnica morandiana, l’importanza non del singolo segno ma dell’insieme, del reticolo attraverso il quale si studia tutta la scala dei grigi, fino al nero più polveroso che oppone il suo effetto tattile al bianco specchiato di intonaci, cieli o stradine sterrate: Paesaggio (Casa a Grizzana) o Paesaggio con il grande pioppo sono espressioni altissime del 1927, cioè l’aprirsi di una stagione feconda che va a comporre i tre quarti dell’intero corpus incisorio; Morandi padroneggia l’acquaforte e ne fa un mezzo incondizionato di espressione superiore. L’intreccio è una trama, una tessitura serica di ombre, fatta di una precisione affidata al variare delle morsure in acido che regolano il segno; il paesaggio è costruito, meditato tra eccedenze di tratteggi neri, in cespugli, tetti e chiome di cipressi, ed azzeramenti che sono esplosioni di luce sulle facciate delle case solide e cubiche.
L’orchestrazione dell’immagine è mentale, lo testimonia il fatto che molte lastre hanno uno o pochi stati, raramente ci sono interventi di completamento sostanziali – invece tipici di Bartolini – e comunque il ritocco è impercettibile. Da questo rigore dipendono le setosità dei grigi, le variazioni tonali sottili e preziose, quell’equilibrio e quel conforto dato dalla progressione dei piani per parallelismi che muovono le campagne e digradano in profondità contro i cieli assolati (Paesaggio di Grizzana, 1932).
Gli stampatori di Morandi trovano le sue lastre “ideali, perché tutto è già sul rame” ed è un’affermazione indicativa di quella metodologia esigente, di quel controllo, di quell’esclusione di casualità che sanno custodire e rivelare come nient’altro un prodigio segreto, di finissima percezione e indiscutibile valore poetico.
Arnoldo Ciarrocchi (Civitanova Alta 1916 – 2004), l’artista che vuole apprendere l’incisione “con l’impegno di imparare a lavorare artigianalmente” – e Luigi Bartolini lo ricorda infatti “in pannella e camice turchino, da onesto operaio” –, è “l’erede ideale di quello splendido talento che raramente capita d’incontrare e che si è già rivelato in Morandi e Bartolini”, dicono Luzi e Baiocco nel 1981, alla Galleria Centofiorini, in apertura della mostra con ritratti, nature morte e altri soggetti figurativi dei tre incisori.
Quest’anno i suoi paesaggi in mostra aprono col 1940: passate già le “lastre nere” ed il periodo urbinate quando, allievo di Castellani, apprende il medium dell’acquaforte, questo è il momento in cui lavora come torcoliere alla Calcografia Nazionale di Roma e studia i segreti dei grandi incisori passando dal fine segno pittorialista alla Bartolini, fatto di cespugli, figure e brevi accenni delle “lastre bianche” (Ragazze all’acqua acetosa, 1940; Paesaggio con una casa ed un pagliaio, 1947; Alberi lungo il Chienti, 1947), alla cosiddetta “maglia larga” di memoria morandiana, che cerca una costruzione più solida, il segno a rete con gli incroci radi, le case fatte di porzioni bianche dentro un ricco gioco chiaroscurale. Gli si rimprovera l’aver abbandonato lo stile di fine anni Trenta e del noto Paesaggio col pagliaio per seguire le ricerche tonali del maestro bolognese, ma sagacemente Ciarrocchi risponde che “colui che sa leggere è capace di recuperare sotto questa rete ghiaccia quell’umore sottile che c’era nelle mie stampine del ‘38”, e la differenza con Morandi la si vede nel segno incapace di trattenersi saldo, rivelatore di un temperamento più sciolto, che dilata dove Morandi rinserra, che attraversa la fase del tratteggio e dell’incrocio per approdare in seguito al “segno grosso”, molto incisivo, e molto rappresentativo del tratto ciarrocchiano, quello che si ravvisa anche nei dipinti, anche negli acquarelli, fino alla fine.
Dallo studio di Piranesi deriva la costruzione prospettica sapiente – a lungo esercitata nelle vedutine di Roma –, le immagini equilibrate, i contrasti distribuiti per esaltare le singole parti e vivificare il tutto in una compenetrazione di natura e figure date per segni sottili. L’intenso tratteggio poi allenta e gradualmente si tinge di un’ariosa serenità paesaggistica, che attraversa la “maglia larga” delle case di conoscenti e familiari sparse nei terreni asolani (La casa dell’amica straniera, La casa dell’uomo solo, La casa della scrittrice di racconti brevi, 1956, La casa di Rinalda, La casa del veterinario, La casa delle figlie di Crescentina, 1958 ecc.) per affrancarsi più avanti trionfalmente nella scarna schiettezza di linee incise a punta, di segni che nascono sottili e si fanno grossi, come in una china che scrive una calligrafia col pennino. Sono gli anni in cui il paesaggio marchigiano e romano si fondono in una sorta di recupero immaginativo, con le colline dell’Asola sublimate nell’Acqua Acetosa in continui rimandi, “sono declivi e case appena accennate, spunti confinanti in un riquadro a significare una tensione di compiutezza, di definizione, bisogno di luce e desiderio del suo possesso” (Gastone Mosci), sono piani essenziali, disposti di scorcio verso lo sfondo, creati da spezzate e da una piacevole poetica dei rami . Il segno sintetico e tagliente risente sicuramente di quella vena ironica riservata a certi ritratti filiformi del padre Aurelio, ispirati forse dallo studio di Daumier, ma successivamente, specie nei paesaggi, s’ispessisce e si carica di un volume rapido, improvviso, che cerca contrasti crudi tra bianco e nero – solo a volte intiepiditi dall’intervento atmosferico dell’acquatinta o dall’uso del fondino – e che richiama quasi il suono prodotto dalle punte sul rame o sullo zinco delle lastre durante l’atto dell’incisione.
I luoghi cari, la vita all’aria aperta, la poesia delle ‘piccole cose’ di retaggio pascoliniano, sono le componenti dolci e vigorose dell’ “asolitudine” di Ciarrocchi, ma sono anche aspetti comuni ai tre incisori di questa mostra che, nel dare uno sguardo alla tecnica dei grandi del passato, trovano se stessi, il loro tempo, la propria cifra incontaminata, e danno origine a una nuova classicità.