RENZO FERRARI – rosso d’autore
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, 2011
articolo per conferenza "Gli svizzeri: Cavalli, Dupertuis, Ferrari, Realini"
Galleria Centofiorini, novembre 2011


“Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua verde, l’aria
gialla e il fuoco è rosso, poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena
riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e
giudica secondo quello.”

Paracelso


Le opere di Renzo Ferrari sono da oltre cinque decenni un’autentica fiammata.
Si tratta di un fuoco che mantiene un nucleo di ghiaccio – forse per via dei natali ticinesi che lo collegano alle coordinate nordiche del gruppo Cobra e alla vena folle e visionaria dell’ art brut, o forse per una lucidità innata che nasconde un occhio critico acuto dentro aspetti grotteschi e generose eccentricità – , é un falò delle vanità che spinge nel calderone colori terrosi per partorire (con dolore) sintesi di realtà spietata, masse e volumi da cui salgono prima gli occhi, poi le sagome, sempre più numerose, di un’umanità deformata dal carico psico-empatico che è chiamata a fronteggiare nel quotidiano, schiacciata dal peso simbolico di monitor e televisori che dominano il pianeta con memoria orwelliana.
L’individualismo, le forze sciamiche della natura, le teste di cardo come ritratti spinosi, gli angoli di periferia, abitati da tossici e da un pullulare compresso di anime, ombre spersonalizzate in movimento, contorni catatonici che a volte accolgono un guizzo d’erotismo, altre diventano riflesso di un accadimento di cronaca urbana, si stagliano tutti sui fondi bruciati di tavolozze accese, sui gialli zafferano, sui verdi brunastri, sui vinaccia, i terra di marte e gli amaranto, fino agli slanci più divertiti e recenti dei rossi papavero, solcati da scritte, rallegrati da un misto collage che rende i lavori dell’artista opere d’urto mai banali.
Renzo Ferrari, nella sua opera di rifigurazione dell’immagine, non rinnega un ductus morbido e pastoso d’estrazione informale, al contrario lo coniuga abilmente a motivi ritornanti che uniscono l’idea di un ambiente a quella di figure che lo abitano, siano esse volti deformi e occhiuti che insinuano gli sguardi e trasmettono un’angoscia grottesca alla Goya, o giganti-macchina bullonati dalle teste squadrate e gli occhi fissi, o ancora silhouette nere dai profili colati come vernice di graffiti sui muri, in ogni caso non esiste distinzione netta tra elemento figurale e sfondo: il colore stende, delinea e impasta e poi si lascia scrivere e graffiare, corre istintivo alla tela tra i ritmi tribali del multietnico trapiantato nella periferia milanese ed il gusto street writer alla Basquiat, si altera in slanci cromatici tra l’espressionismo olandese dei Cobra e un tutto striato hundertwasseriano – ma d’intento e risultato più cupi – si concede infine, ultimamente a collage di tema erbario sui quali comunque domina l’impeto, la vampa sempre accesa, l’incendio delle violente tavolozze.
Il colore è il primo attore del racconto ferrariano.
Il dramma dell’uomo – isolato in ripetute terre d’esilio – è affidato in primo luogo al rogo dell’impianto cromatico (certo senza dimenticare la forza tagliente del tratto che emerge con vigore anche nelle carte e nelle incisioni), speziato, rovente anche nei verdi e negli azzurri, spesso giocato sugli ocra e sulle tonalità ambrate, qualche volta buio e fosco con lampi bianchi, ma soprattutto organizzato a contrasto sui rossi, che investono e attraggono con modernissimo sapore pulp.
Il tuffo di Ferrari nelle tinte sanguigne avviene non prima dei tardi anni Ottanta.
In precedenza l’ibridazione segnica e figurale coinvolge anche quella cromatica e, sebbene il colore primario faccia inevitabilmente la sua comparsa (in alcuni casi in maniera poderosa, come nel bellissimo Gaio Power del 1973, fatto dello stesso cremisi che lo circonda), è successivamente che i colori si fanno più emotivi, più espressionisti, dati in larghe campiture sugli sfondi, stesi a contrasto, in un conflitto cromatico – dichiarazione di quello umano – in cui primeggiano intensi carminio e profondi granata, in dicotomia coi grigi e con le gamme aranciate, talvolta scendendo a farinosi bordeaux.
Negli ultimi due decenni la luce sembra aumentata e, ciò che inizia con l’ispirazione africana e con l’energia primitiva dei porpora e pompeiano fantasiosi sulle tele (che riprendono non solo i profili negroidi ma anche lo stile tanzaniano e congolese, pur misto dell’idioma nordico e metropolitano), poi sale di tono e approda al rubino, al veneziano, allo scarlatto, sempre più ardenti, quasi aggettanti: un mare di brace che accoglie le scritte e i collage, rinnova i motifs, cattura lo sguardo.
Renzo Ferrari si spinge avanti, incalza e pressa, orchestrando con divertita sapienza le svariate componenti della sua ricerca, restituendo immagini febbrilmente passionali, siano esse radici o mandragole in nero, siano esse “erbolari” folli e ironici che esibiscono le spine rosse di questa difficile società.




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