Dino Baiocco - Il paesaggio informale
articolo per Rrose Sélavy Magazine n.5, marzo 2010
di Marta Silenzi


Paesaggio col mare, 40x50 cm, olio su tela, 1989

Lui li chiama paesaggi, io li chiamo informali.
Per via di tutta quella materia-colore, per le campiture stese larghe e a spatola, per quel prendere la tela a blocchi e sezioni che confondono eventuali profili e dettagli e impastano e rimescolano invece che delineare.
Dunque un ossimoro pittorico: da un lato il retaggio informale, anoggettuale per definizione, sul cui piano ci siamo incontrati la prima volta – lui un esperto pittore, incisore e gallerista, io una neofita dell’arte e della scrittura –, dall’altro il calore per il dato paesaggistico che è però talmente pensato, ragionato e riflesso da aver sviluppato un linguaggio altro, da leggersi con fonemi molto materici e vagamente segnici, quanto basta per un’evocazione, un suggerimento, un soffio.
Dino Baiocco, nato a Civitanova Alta nel 1931, trapiantato undici anni a Milano per un lavoro in banca – “ma il sabato e la domenica erano per me, potevo dipingere” dice – divide la sua vita in due sezioni: quella a casa a contatto con l’amata terra collinare, degli anni formativi e poi del ritorno nel ’67, e quella fuori, al nord, dove assorbiva cultura e controcultura artistico-intelletuale e quel Realismo Esistenziale gravido di tutti i movimenti che lo avevano imboccato e preceduto.
Così, come aveva assimilato e consumato da piccolo, già bravo a disegnare, l’arte dal vero degli artisti orbitanti intorno alla figura di Luciano Moretti, nello stesso modo quei fine settimana lombardi s’impregnava di avanguardie e le sperimentava tutte.
Perciò non sarebbe corretto definire Baiocco soltanto un paesaggista o un informale, i suoi lavori sono troppo fecondi e troppo bulimici di ricerca, prove e sperimentazione, ma sicuramente il paesaggio è il soggetto più caro così come lo è il medium pastoso ed abbondante d’estrazione informale.
Nelle orchestrazioni di base delle sue immagini si ravvisa inevitabilmente la lezione del compaesano ed amico Arnoldo Ciarrocchi (si veda l’acquerello su carta Fontespina, 1970, esposto al Centro Studi Osvaldo Licini di MonteVidon Corrado, fortemente memore ad esempio del ciarrocchiano Paesaggio di Civitanova, 1968, della collezione permanente della Pinacoteca Civica Marco Moretti di Civitanova Alta), ma più che un’influenza di questo su Baiocco si è trattato io credo di un respirarsi ed un respirare comune: probabilmente la campagna che incorniciava Civitanova Alta era punto nevralgico, modello ed ispirazione costante per i due, tuttavia quel che ha mantenuto linee di contorno e pennellata, pur data a colpi netti e quasi taglienti nel primo, negli anni è diventato larghe stese cromatiche spesso infiammate, quasi espressioniste nell’altro che ha abbandonato la forma per rendere il vagheggiamento del paesaggio parlato e detto solo dalla spinta materica, dalla forza delle tinte e qualche colpo segnico reduce dalla costante attività di incisore.


Paesaggio rosso, 40x35 cm, pastello ad olio su carta, 2005

Altrettanto fatale è però l’esempio di Morlotti, proprio uno degli artisti che Baiocco espone alla Galleria Centofiorini fondata con Giorgio Luzi nel 1979, che di un possibile paesaggismo informale fa la sua cifra a partire dai primi anni ’50 e con il quale il nostro marchigiano sembra identificarsi particolarmente. Ci si è già chiesti dell’appartenenza o meno di Morlotti alla corrente informale ed è molto simile la domanda che sorge a proposito di Baiocco, perché i due pittori, se non per tavolozza, sono sicuramente molto vicini per approccio e sensibilità.  Analoga è dunque anche la risposta: si è parlato di naturalismo per la pittura del lecchese, iponaturalismo, cioè di una tendenza alla rappresentazione del paesaggio non in termini ottici ma in medias res, e questo fa del pittore decisamente un informale. In Baiocco si riconosce il medesimo orientamento, una perdita della forma a favore di un maggiore coinvolgimento dell’artista (e del riguardante) nell’opera, dentro l’opera, così come dentro la natura che tanto ama. Questo è il nesso logico che lega i due termini in opposizione: il pittore stabilisce col paesaggio che lo circonda una tale empatia da eliminare le distanze e voler entrare nella sua trasposizione sulla tela, nella materia di cui esso è fatto.
È il procedimento inverso rispetto agli acquerelli: in quelli Baiocco si distanzia dall’immagine tanto da perderne i tratti e i contenuti, negli oli si avvicina tanto da confonderli.
Non è la “distesa di sabbie mobili” che Calvino identifica con un magma indistinto di cose ed io nel saggio Il mare dell’oggettività, non è quell’informe incosciente che tanto critica,  ne’ la ricerca vischiosa e biomorfa peculiare dell’Informale europeo, ma è sicuramente l’avvicinamento, l’immedesimazione con la materia-paesaggio che da visiva si fa tattile, non distante e netta ma meravigliosamente confusa con l’essere, nella doppia accezione che il termine suggerisce: indeterminata, indistinta, ambigua da un lato e mescolata, mista, aggrovigliata dall’altro. È un iletismo panico. Non una patologia, un sentire sofferto ma una fenomenologia poetica del paesaggio, percepito molto intimamente e teneramente, come teneri sono l’indole ed il sorriso dell’artista oggi.
Elena Pontiggia, nella presentazione alla personale dell’artista del 1988 alla Galleria Centofiorini, parla giustamente di paesaggio mentale (lo stesso Baiocco dice:”Quando penso e vedo le cose, le cose le vedo perché le avevo pensate”) che alla mitezza del territorio sostituisce un’ansia psichica propria del pensiero, non delle cose e che si riversa tutta nella zona terrestre del quadro; nell’opera di Dino Baiocco io scopro però maggiormente un sapore dolceamaro, una vaghezza melanconica più che inquieta, uno scambio di dolcezze tra il paesaggio e l’uomo, una tangenza di spiriti, una mescolanza di sensazioni. A perdita di forme e a guadagno di masse.
La questione tattile è molto viva in questo pittore, all’occasione anche scultore – “per divertirmi” dice –: il rapporto fra i corpi, l’aspetto palpabile del ductus, il contatto stretto con la natura, ogni fattore vi rientra ed in questo senso il guizzo, il vigore sono tutti affidati alla tavolozza che spesso, specialmente nelle realizzazioni dal 2000 in poi, infuoca anche i colori freddi, come facevano i fauvisti.



Paesaggi, 40x35 cm, monotipo e intervento pittorico ad olio su carta, 2002

La mano di Baiocco, poliedrica e costantemente in corsa per seguire i dettami del suo sentire estremamente produttivo, è veloce e sempre riconoscente dell’attività di incisore – di cui è bene parlare in una sede autonoma –; tutto il quadro è dato dalla suggestione d’insieme, non si scinde in particolari. È lo stesso paesaggio che si propone ogni volta in stati d’animo difformi, cambia faccia e forse per questo esige differenti medium, come i pastelli ad olio che, morbidi e cremosi, generano superfici dense, a strati sovrapposti e rendono molto bene il tratto, o l’interessante tecnica del monotipo che attraverso il torchio prepara una superficie di colore pressata su cui poi l’artista interviene nuovamente a mano libera, apportando spessore e tocchi di volume.
Un’ossessione quella di Baiocco per la pittura, una possessione che lo pungola e lo invade dall’infanzia, che ha saputo attendere e fare scorta di sé durante gli anni del lavoro per poi esplodere in un’età proficua che sa ancora e meglio come fare la corte al suo paesaggio speciale.




 

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