SILVIA MEI - MASCHERATA

nota per Stanze, n.2 Donna, giugno 2022 
di Marta Silenzi 


“(...) come ci si può ispirare a qualcosa che non si sente sulla pelle? Nella carne?Le nostre opere, noi, siamo quello che vediamo, che sentiamo, che beviamo, che baciamo, che odiamo, che leggiamo, che guardiamo, che annusiamo, che ricordiamo, che ripudiamo.”

(S.M. 2017)


Sembra di sentire i campanacci.

Quest'artista si porta la sua terra dentro. La verità, l'asprezza, la bellezza, l'inquietudine, che finiscono in un linguaggio personale, vivace, definito e carico.

È sarda, Silvia Mei, di Cagliari e, anche se gli studi e il suo lavoro attraversano l'Italia e mezzo mondo, la matrice resta forte e impregna il suo lessico pittorico.

Le figure della Mei sono lontane dall'idea del bello o del mimetico, sono ambigue, perlopiù femminili ma si muovono su piani liminali perchè il modello che rispecchiano è psico-sensibile più che fisico, è un mondo interiore che assume un aspetto estreriore.

Sono maschere. Che richiamano quelle della tradizione sarda ma che assumono significati più sottili, giocano con quel codice per portare in superficie momenti e disagi di vario genere, attuali, singolari ed universali.

È una che affronta le sue paure quest'artista, una che cerca una sincerità spietata, che ne denuncia i camuffamenti, che parte dagli incubi per farne pittura (“Urlare senza essere sentiti, urlare ma non avere voce, urlare in una folla maledettamente sorda. Puoi essere capita, fraintesa, ignorata, ma non ha importanza: tu l'hai detto.”), che si adatta agli spazi e trae la tecnica dalle sue scomodità (“quando non avevo spazio per dipingere e avevo voglia di farlo in grande arrotolavo la carta finchè non decidevo/sentivo che il dipinto era finito. Per questo la maggior parte dei miei lavori sono su carta, successivamente decidevo se farli intelare, intelaiare o lasciare liberi. Ora che ho cambiato casa, o meglio, stanza, non ho più pareti per appendere la carta, perciò dipingo più su tela. Odio non sentirmi libera, ma sono tutti stimoli che da negativi cerco di trasformare in positivi tramite la pittura stessa”).

Le sue mostre hanno nomi come L'odore (2017), Dolcissime nevrosi (2021) e – che parlino di tempo che si sovrappone sulle superfici riprese a distanza di anni o di un'umanità alla deriva preda di ansie e sofferenze psichiche – presentano questo popolo di donne/animali vagamente malinconiche e un po' sinistre, prese dentro fondali e vesti a ricami festosi di memoria sarda mista a un gusto per Ensor, l'Art Brut, il Doganiere e magari Frida Kahlo; le fisionomie e la bellezza nascoste dietro maschere di colore denso, schiuma poliuretanica e pasta acrilica, croste plastiche che comunicano disagi enigmatici, rovelli psico-emotivi che assumono queste strane sembianze in cui tutto è comunicativo, dal segno semplice al colore piatto, dal multistrato alle tecniche miste di capelli e popcorn: tutto concorre a destabilizzare, porsi domande, comprendere che c'è una complessità umana onirico-grottesca, insana, forse anche ironica, una parte del tutto.

Ne è una sublimazione la recente The dark buttefly, donna-inganno, donna-odio, donna-oblio che si appropria della bellezza, della leggerezza di cui la farfalla è simbolo, per farne un marchio nero di lutto per qualcosa che fa ancora male, o di ostilità e risentimento sotto le mentite spoglie della femminilità, immersa nei colori splendidi del fondale, ammaliante negli occhi piccoli, nello sguardo tagliente che, assieme a quel muso suino, evoca la seduzione del male. Il coagulo nero sul volto è lo snaturarsi dei tratti di chi non può essere se stesso, la mancata libertà della farfalla, ancora una volta la maschera che si è costretti ad indossare.

Silvia Mei è un'artista dalle tematiche forti ed astruse, la tavolozza brillante, il cui impeto ed animo vanno certamente indagati a fondo.




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