KEROUAC BEAT PAINTER

nota per Stanze, n.2 STRADE, settembre 2022 
di Marta Silenzi


Le nostre valigie logore erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede;

dovevamo ancora andare lontano, ma che importava, la strada è la vita.”

(J.K. Sulla Strada)



Jack Kerouac era un pittore? Anche. Un disegnatore, un pittore, un pazzo del colore, della penna, della macchina da scrivere, un visionario che aveva bisogno di esprimersi e lo faceva con tutta la gamma di strumenti a disposizione.

Aveva realizzato l'ipotetica copertina di On the road prima ancora di averne finito la stesura.

Alla sua morte nel 1969 la quantità di ritratti, schizzi e dipinti era enorme. I taccuini rigonfi. A volte tocchi di colore, a volte poche linee e curve. Tutto preso con vigore, energia assorbita e restituita, flusso ininterrotto, ritmo, vitalità. Come con le parole. Come con la scrittura.

Il senso di libertà che pervade l'immaginario letterario di Kerouac e dei beat in generale lo si ritrova integrale nella produzione visiva: immediatezza, pochi dettagli incisivi, molto concetto. Le tematiche sono le stesse della prosa: riempire un attanagliante senso di vuoto, lanciarsi in una sorta di ricerca esperenziale anche attraverso le droghe, le benzedrine soprattutto, indagare la spiritualità con un sincretismo religioso che unisce l'educazione cattolica ricevuta a Lowell con il buddhismo sperimentato con i beat; una forte tendenza all'anticonformismo e alla ribellione coniugati con l'ossessione del viaggio, dell'andare, del cogliere l'attimo.

Si tratta sempre della “leggenda di Dolouz”, l'insieme di tutta la produzione di Kerouac – come la intendeva lui, come la vedeva chiaramente sin dall'inizio – alla maniera della ricerca di Proust, in cui però rientrano anche illustrazioni, dipinti, poesia, haiku, quell'insieme di elementi che secondo Gérard Genette costituisce il paratesto necessario alla stesura del testo stesso. Del resto è una pratica di tutti i beat, talmente gavidi da corroborare i loro scritti con disegni, fotografie, musica, suoni, ritmo, registrazioni e cinematografia.

(...) queste opere pittoriche (…) sono parte di quel fenomeno potente che è stato Jack Keruac, come fossero membra di un mitico corpo, così dinamico e vorticoso da aver bisogno, per esprimersi, di una molteplicità di strumenti”, scrive Sandrina Bandera della collezione che Kerouac aveva lasciato al cognato John Sampas, esecutore testamentario, buon divulgatore e promotore del valore e significato anche di questa forma espressiva dell'autore franco-canadese.

Una prosa spontanea per immagini. Esattamente come per la scrittura. “Una sincera apertura dell'anima, perchè la vita è sacra e ogni momento prezioso” (Sulla Strada).

L'arte è uno degli ambiti di ispirazione per tutto il gruppo della beat generation, sono numerosi i passaggi in cui ne parlano, sia nelle lettere che nelle rispettive pubblicazioni. Kerouac rincorre Van Gogh e Cezanne, considerati le basi della visione contemporanea secondo le lezioni di Meyer Shapiro frequentate alla Columbia; e poi William Blake e l'opera grafica di Picasso, fino all'esplosione dell'Espressionismo Astratto, della pittura gestuale, di quel guizzo da inseguire e restituire forsennatamente alla maniera di de Kooning o di Adolph Gottlieb, quella scuola di New York avvicinata e frequentata grazie a Dody Muller e dalla quale Kerouac acqusisce un metodo cui si dedica con serietà. In un quaderno degli appunti, il 27 gennaio 1959, scrive la sua sequenza di fasi nell'esecuzione di un dipinto: ”1) usa solo il pennello, non il coltello per mescolare i colori, dimentica i colpi di pennello, non usare le dita per schiacciare, evita di lasciare segni che non sono reali; 2) usa il colore spontaneamente: cioè senza disegno, senza lunghe pause o attese, senza grattare, sovrapponilo a strati; 3) le figure devono convivere o con lo sfondo o con le pennellate dipinte; 4) dipingi cosa vedi davanti a te, non fingere mai; 5) fermati quando pensi che sia una prova. In realtà hai già fatto”.

Il metodo è applicabile anche alla scrittura: onestà della sensazione, fedeltà alla visione.

I soggetti non sono altro che ricordi, esperienze, visioni appunto.

Ritratti, jazz, ritmici, schizzi evocativi di situazioni, volti dalle strade, pochi dettagli incisivi, senso d'insieme. E poi angeli, sintesi della cricifissione e posizioni yoga: culture sincretiche, psichedeliche in cui ravvisare il significato della visione, questo termine che torna sempre, nei titoli, nelle descrizioni, applicato a Dean Moriarty, al fratello Gerard, ai sotterranei in generale, che sono beat come battuti ma anche come beati, in un rapporto viscerale col mondo, tanto fisico quanto mentale e spirituale che rende Kerouac un “fuorilegge dell'apparato sensoriale” – come lo definisce Michael McClure.

Ci sono dipinti a tema naturalistico, come tante scene descrittive di Sulla Strada o Big Sur, in uno stile tattile e figurativo insieme, composizioni impressioniste rese da una pittura espressionista; ci sono prove segnico-gestuali, cromatiche e materiche, volte all'improvvisazione, come facevano Jackson Pollock o Charlie Parker, sperimentatori estremi fino all'autoditruzione, autentici ribelli, innovatori la cui energia ritmica sovverte i modelli culturali e trasforma le convenzioni.

E poi ci sono quei due o tre fogli che valgono tutto il resto. Come nei libri, quelle due o tre o trenta frasi disseminate nel mare magnum della scrittura spontanea che sono autentiche illuminazioni, impareggiabili, che non serve spiegare, basta lasciarle agire, risplendere, esplodere. Nessun capolavoro, soltanto magia beat.



-Dobbiamo andare e non fermarci finchè non siamo arrivati.

-Dove andiamo?

-Non lo so, ma dobbiamo andare.”




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