Il senso del tempo
di Marta Silenzi 
testo pieghevole mostra Livio Ceschin - L'eredità del segno
Palazzina Azzurra di San benedetto del Tronto, luglio 2015

“Nulla sarà minore di qualcos'altro”
Rossella Frollà


Nelle opere di Livio Ceschin risuonano eco boschive, suoni di natura diffusi e veleggianti sulle terre e sui fogliami, è udibile un brulichio atmosferico oltre i tronchi d'albero e un frusciare di rami nel vento e sull'acqua di questi angoli di suolo che cerca e trova dove perlopiù l'uomo non sembra
essere ancora passato.
Vien da dire bozzetti, idilli, forse in alcuni casi, ma Ceschin ha grandi sguardi sulla natura e spesso grandi formati nel ritrarla: si addentra in sensazioni di panismo, vaga nei boschi come Thoreau, sulle tracce del selvaggio, sulla scia di una libertà sconfinata, di una quiete sovrastante che scricchiola e vibra sotto i suoi passi come sotto le sue mani.
Tutto torna nelle incisioni, ogni minuzia, ogni frammento visto e sentito nell'esperienza plurisensoriale, tutto di quelle passeggiate “trascendentaliste” torna con l'artista nell'atelier e da fotografia si fa disegno e studio e si somma e aumenta di impressioni, si sovrappone a ricordi e suggestioni di frasi e calligrafie, sfuma in frammenti vetrosi, si fa carta, veicolo di trasmissione tra la creatura ricettiva e il fruitore, nel quale l'esperienza verrà ulteriormente percepita e ancora variata in un divenire costante, tipico delle cose naturali.
Ecco l'atemporalità di cui sono intrise queste acqueforti e puntesecche: tutto è fissato nel tempo eppure in tutto il tempo scorre, ed è questo il punto focale nella produzione incisoria di un artista che lavora con lentezza perchè è un cesellatore, perchè ha obiettivi altissimi di raffinatezza del segno, attenzione al dettaglio, restituzione d'insieme. E su tutto poi passa e stende un velo magico mahleriano l'ingrediente poetico: lo sfumato, il fondino, l'ombreggiatura pittorica, la scelta luministica dagli effetti tonali.
Il tempo. “Com'è nascosto il tempo all'uomo! La vita opera in un silenzio appartato, e non diversa è l'arte”, scriveva franco Loi nell'introduzione a L'azione della luce, pubblicazione che nel 2003 legava il bulino di Ceschin alla penna di Mario Luzi, cogliendo perfettamente questa componente temporale coniugata alla necessità del silenzio, dell'appartarsi in una sorta di solipsismo percettivo e contemplativo del circostante (più avanti Loi scriveva anche: “la parola contemplazione viene da contemplum, stare col cielo, stare col tempio – me ne viene un senso di silenzio e di misura”). 
E tempo e silenzio sono ciò che serve a Livio Ceschin, che porta a casa le immagini rubate nelle sue escursioni come un bottino nella sacca e le declina poi in tratti e segni con grande maestria e differenziazione, mantenendo visioni da vedutista, come avesse una lente speciale, ma oltrepassando il dato descrittivo, sfondando il mero diaframma tecnico, aggiungendo straniamenti e lavorii dal sapore caratterizzante e fortemente lirico.
L'incisione si accosta spesso alla poesia, perchè è una forma d'illustrazione, perchè si stampa sulla carta, perchè conserva una ricercatezza che l'accomuna al verso, come qualcosa di passato che resiste nel tempo e sempre resisterà, tuttavia la produzione di Ceschin contiene in partenza un poetare diffuso: è nello sguardo dell'artista già al momento in cui avvista uno scorcio, forse anche prima, nella ricerca, nella sensazione che persegue, nell'atmosfera che respira.
Echeggiano Emily Dickinson, Walt Withman per quelle lande e per quei giardini, tanto quanto vi echeggiano Dürer o Rembrandt.
Ancora in quell'introduzione Franco Loi scriveva che “un artista o un poeta ha un'intenzione, si sa, pensa di voler descrivere la cosa e invece dà vita a qualcos'altro cui lo destinano il ritmo e il moto, cui lo trascina il segno”, entrambi infatti hanno ispirazione sensoriale e realizzazione grafica della visione, hanno andamenti e musicalità a scortarli, sono determinati dall'insieme di più parti che misteriosamente genera qualcosa di voluto eppure sorprendente per gli stessi autori: declivi innevati, angoli di cortile, vitigni e strade di campagna, un torrente montano o la panchina di un parco possono chiamare e parlare uno strano esclusivo linguaggio a pittori e poeti, il loro aspetto combinato all'esperienza sensoriale del momento evocano in superficie e poi sul foglio qualcosa di personale e molto intimo dell'autore, qualcosa che a volte egli stesso ignora, e tutto si ripete in chi guarda l'immagine, in chi legge i versi, ché in fondo siamo sempre tutti alla ricerca di noi stessi.
È un tempo lento quello dell'indagine, della scoperta, un tempo lento dedicato all'ascolto; anche se l'attimo va colto velocemente, poi servono molti momenti successivi per liberare quell'immagine reale e mentale, per definire i brividi e i contorni e per specchiarcisi dentro.
Ceschin usa l'acquaforte e ne sonda le perfezioni fondenti in ripetute morsure, lavora piano e attentamente, restituisce ogni foglia tremula, rifinisce a puntasecca, poche lastre l'anno, tracciando, fendendo, fregiando, chiuso in un cosmo boschivo silente, dove il termine “chiuso” ha la facoltà di liberare, come sempre avviene nell'esprimersi più intenso.
Lontano dal rumore cittadino, vicino alle stagioni che mostrano i cambiamenti e la struttura delle cose, l'incisore traccia al contempo un percorso creativo ed esistenziale, solcando le lastre come lascia le orme nel terreno, giorno dopo giorno, in un diario moderno scritto con tecniche antiche.
Questa esposizione dice molto del colloquio con la poesia: alcune delle incisioni proposte sono corollario della raccolta Violaine di Rossella Frollà (presentata all'interno della mostra in un doppio evento) e le varie citazioni di Franco Loi non sono casuali essendo stato foriero dell'incontro tra Ceschin e la poetessa.
Le dodici acqueforti/puntesecche che illustrano il libro riguardano una scelta della stessa Frollà, secondo un criterio comparativo col contenuto di alcuni suoi passaggi poetici molto vicini per malia ed atmosfera. La natura morbida o impervia, incontaminata, i colombi, gli angoli familiari in forma di ricordi, vagheggiamenti gravidi che scivolano tra i versi come nei tratti incisi e ancora viene da pensare a Emily Dickinson, a quanto il suo occhio interiore riusciva a penetrare l'elemento naturale o il suo ascolto captare vibrazioni domestiche – pur non essendo quasi mai uscita dai confini della sua camera, anche lei “chiusa” eppure liberata.
“Corre agli angoli l'acqua del torrente/ stremate splendenti le sponde/ a portare la terra in cielo/ le pietre preziose dal fondo/ al trapasso sull'onda/ un certo pudore nei campi/ la gioia porta i sensi/ tra rovi e cespugli bianchi”, sembra scritta guardando Paradisi Nascosti di Livio Ceschin, acquaforte che in migliaia di segni precisi e tratti intenzionali restituisce tutto il selvatico di un torrente ritroso e vitale, in moto tra le rocce e i rami d'albero chiazzati di neve, nell'equilibrio di chiaroscuri che contengono lo scroscio d'acqua e il fresco degli schizzi, l'odore terroso del fondo e l'idea bianca di un cielo incombente tagliato fuori dal bordo, come una sineddoche figurativa: una parte per il tutto, un frammento a restituire l'intera gamma sensoriale. Potere dell'immagine, potere dei versi.
Le incisioni volute per la raccolta vanno dal 1992 al 2013 e sono perlopiù brani di una natura pura ed integra – poche le concessioni ad un romanticismo meno febbrile e più prosaico (Le rose di Susanna) – che rimanda sensazioni di conforto, piacevolezza, un benessere vigoroso (Tra vigneti e arativi; Sottobosco; Nel giardino di Chartrettes) in linea con un fare poetico intimo e al contempo universale, ma anche coerentemente con le altre opere esposte i cui temi, pur rinnovandosi nel tempo, restano impostati entro i margini del brano di paesaggio naturale, luoghi in cui l'animo può vagare e ritrovarsi, in costante dialogo, in reciproca manifestazione di sentimento e appartenenza.
Nel percorso l'attenzione viene poi attirata da un'opera che sembra contenere tutto quanto detto: uno stipo di fiaschi, piattini e stoviglie, una natura morta che trattiene una quotidianità semplice e palpitante, assi di legno in un muro sfocato ai margini da calligrafie, lembi di frasi trascorrenti, un battito di vita chiamato appunto Poesia Ovunque, un piccolo prodigio semantico che da solo sembra esprimere ogni cosa.

Il titolo della mostra avrebbe potuto alludere al senso del tempo o della poesia, L'eredità del segno cui invece occhieggia non è altro, a mio parere, che una qualità, una purezza della visione, una sicurezza dei gesti, un talento elegante che Ceschin in realtà possiede innati e quindi non tanto ereditati quanto forse esercitati sugli illustri amati predecessori, qualcosa che lega certo generazioni di artisti aldilà delle età e contiene l'idea di un lascito putativo diramante nessi e relazioni persino nel ritiro più cercato, nel silenzio proclamato, nel rifugio più nascosto, dove ogni oscillazione lirica può essere distinta, dove ogni segno può tornare a comporre l'immagine.


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