ZORAN MUŠIČ, l'opera grafica - tre mostre, una collezione
ed. Centofiorini, collana della Marca, 2016
testo in catalogo delle tre mostre sull'opera grafica di Zoran Mušič
ed. Centofiorini, collana della Marca, 2016
testo in catalogo delle tre mostre sull'opera grafica di Zoran Mušič
Galleria Centofiorini 26 luglio - 21 agosto 2016
Cavallini dalle zampe
esili, nomadi, viaggianti, transumanti sulle strade di paesaggi
collinari d'oro e tinte tenui, decorativi – le colline come i
cavalli – parte di un'atmosfera tremula preziosa, armonica, un
patchwork lirico e raffinato, fiabesco, onirico.
Questa è l'immagine che
abbiamo in mente del lavoro di Zoran Mušič,
artista dalle radici estese, multietniche, sloveno ma in fondo anche
italiano, figlio del regime asburgico in una Gorizia austroungarica
che poi trova a Venezia “l'occidente e l'oriente così intimamente
fusi (…) che ho capito che lì c'erano la mia tradizione e la mia
verità”.
Venezia, la luminosità
lagunare, i mosaici dorati, le icone bizantine, il decorativismo, la
solennità serenissima si fondono completamente e tanto
armoniosamente nelle opere più note di Zoran Mušič
da far credere che non sia un mondo immaginifico in cui rifugiarsi,
da dare l'illusione che sia la sua realtà.
Senza
scorrere la biografia dell'artista non ci renderemmo conto
dell'effettivo stato delle cose, ne' della cronologia dei fatti che
hanno sollecitato fasi pittoriche e cicli tematici di un artista
tanto conosciuto ma ancora tanto segreto1.
Le
tre mostre che l'Associazione Culturale Centofiorini intende
presentare coprono l'arco produttivo di Zoran Mušič dal '47 agli
anni '70, affrontando le tematiche dal punto di vista della grafica –
confrontata con tecniche miste, oli ed acquarelli – svelando le
capacità tecniche, la coerenza della ricerca e gli approdi ben oltre
la magnificenza cromatica, arrivando sottilmente a mostrare il
lavorio esperenziale e la fragilità di uomo e di artista, la strada
fatta, le visioni evocate, il passato alla fine impossibile da
dimenticare.
È
del 1947 il primo gruppo di incisioni esposte. Cavallini
e Donne con asinelli.
Sono immagini essenziali fatte di poche linee a puntasecca,
iconografie calme, persino giocose, con elementi decorativi sul manto
degli animali e nei riquadri, come cimose, come bordature di arazzi.
Anche le opere degli anni immediatamente successivi presentano lo
stesso elemento, talvolta niente più che un perimetro a cornice. Si
tratta di cavallini, mandrie, asinelli o motivi dalmati o ancora
paesaggi umbri e senesi, e poi il ciclo dei traghetti. Tutto è molto
semplice, paesaggi e figure rasentano l'elementare, tendono al segno
essenziale, sottile, perfetto per la tecnica scelta. Tutto è
silente, metodico, nelle terre prive dell'elemento umano o animale in
cui sembra di sentir frusciare il vento, e sui traghetti che muovono
lenti verso sinistra o frontalmente, di cui percepiamo l'oscillazione
nell'acqua, il brontolio animale.
Una
vita quieta.
Dagli
anni '50 si nota la variazione del motivo ricurvo, dalle colline alle
donne dalmate, agli stessi cavallini visti da tergo. Le componenti
vanno progressivamente stilizzandosi, la forma si schematizza e la
linea acquista sempre più un valore segnico, alla Capogrossi ma con
la decisa differenza che in Mušič resta sempre un segno
significante, derivato dal dato naturale, allusivo, evocativo e
sempre più caratterizzato in senso decorativo (puntini, quadratini,
striature, particolarmente efficaci in campo grafico perché vanno a
muovere in modo tonale laddove il colore non c'è). È una prima
astrazione segnica che approderà ad un estremo quasi materico ed
informale negli anni Sessanta ma che non si allontanerà mai dal
contenuto campestre, dall'indagine di quelle terre e di quei paesaggi
dove pascolano i cavallini e si curvano sui campi le contadine.
Una
vita quieta, dicevamo.
Eppure
questi sono gli anni che seguono l'inferno.
Zoran
Mušič nel 1944 viene deportato nel campo di concentramento di
Dachau. È accusato di connivenza con ambienti filo-alleati e resta
rinchiuso per sette mesi di fronte alla più atroce degradazione
umana, mesi a contatto con uomini che da soggetti diventano oggetti,
privati prima dell'identità poi della vita, giorni, settimane a
disegnare schizzi in segreto di corpi ammassati, magri, pallidi,
putrescenti.
Liberato
nel '45, torna a lavorare a Gorizia e a Venezia. Torna ai cavallini,
alle vedute veneziane, alle terre senesi. Torna come se nulla fosse
stato mai, ma a guardare bene la traccia è invece evidente: questi
soggetti sono un rifugio, un conforto, sono casa,
sono l'aria e la luce che gli era stata sottratta, sono la perfezione
della quiete, della semplicità, del ritmo lento e metodico, sono il
senso della libertà, della vita. Ed è mutato anche lo stile:
l'esperienza ha depurato la visione, ha eliminato il superfluo, è
rimasta l'adesione al naturale ma trasfigurata in chiave lirica,
tendente ad un'essenzialità stilistica ed iconografica ben oltre la
realtà temporale, all'interno anzi di un mondo naïf,
fiabesco e piacevole.
Alla
luce della vicenda biografica, si avverte in queste immagini
apparentemente serene un senso di precarietà, una poetica che evita
il presente e lo supera in luoghi senza tempo, sempre uguali eppure
sempre in movimento, con quelle figurine nomadi, migranti, prese in
un flusso continuo.
Questo
vale per gli oli e gli acquerelli, dove l'elemento cromatico aiuta
ulteriormente a disperdersi in questo mondo fine e delicato indagato
per cicli – che sono come aree semantiche utili ad una lettura
articolata dell'opera dell'artista – e ottenuto con grande capacità
di sintesi chiamando alla mente da una parte il Paul Klee degli
acquerelli tunisini e dall'altra De Pisis, che lo presenta con
evidente sintonia elettiva alla Piccola Galleria; e vale anche per le
incisioni che nella prima mostra alla Galleria Centofiorini
riguardano un periodo ancora acerbo, in cui incidere è solo un modo
per farsi conoscere che via via si fa stimolo complementare alla
pittura.
Le
prime stampe sono impresse sui torchi dell'Accademia di Venezia,
aiutato dalla moglie Ida, con tirature occasionali e spesso mai
portate a termine (le effettive datazioni si devono infatti alle
ristampe sistematiche delle lastre da parte dell'Atelier Lacouriere e
Frélant negli anni '60). La predilezione è comunque da subito per
la puntasecca, perché più vicina al disegno.
Diverso
è il sentimento dell'artista verso la litografia che, in
conversazione con Rolf Schmüking nel 1986, confessa di non amare
molto, assimilandola alla stampa tipografica, eppure sono parecchi i
suoi tentativi ed interessanti i risultati in campo litografico, dove
sperimenta anche il colore, dal '48, negli atelier di Arta ed Emil
Matthieu a Zurigo e poi di Mourlot e Desjobert.
La
seconda mostra alla Centofiorini è dedicata
in parte a questa tecnica. Sono presentate opere degli anni
Cinquanta. Ancora molte composizioni di cavallini, paesaggi e qualche
ritratto di Ida, i motivi dalmati e i traghetti, quasi una copia
della prima esposizione ma con un cambio di tecnica che cambia tutto:
dove c'erano un campo bianco ed un segno netto ora ci sono sfumati
dagli effetti tonali, linee inevitabilmente più morbide, neri più
pastosi. Resta l'essenzialità, il procedimento compositivo a
togliere, l'eliminazione del superfluo, la ricerca di quel tanto di
segni e docorativismo che determinano un fine equilibrio, nulla meno,
nulla più.
A
se stante il gruppetto di ritratti e nudino. Fondi neri, puntinismi,
poche componenti davvero elementari per restituire un volto ed un
sentimento.
Poi
si assiste ad un salto temporale.
Sul
filo della tecnica litografica, preponderante
in questa seconda esposizione, si balza agli anni Settanta, si entra
nell'orrore.
Dopo
tanto sfuggire al passato, dopo tanto rifugiarsi nelle terre libere e
luminose, ecco che i ricordi di Dachau tornano alla superficie
dissepolti, premono per rendere testimonianza ed è incredibile
pensare che ci siano voluti circa trent'anni di elaborazione prima
che Mušič potesse riaffrontare la zona grigia della sua vita,
quando il pallore aveva preso il posto dell'oro e dell'azzurro.
Sono i primi anni '70 e
Mušič
disperde tutto lo shock memoriale con disegni, pastelli, pitture e
grafica come fosse l'unico tema possibile all'improvviso: l'artista
ora è pronto a rievocare. Altro è il clima, altro lo stile,
l'obiettivo, rivolto in dentro e in fuori.
Il
libro Cadastre
de cadavres2
ed il ciclo di incisioni
Nous ne somme
pas les derniers
sono tappa focale nell'opera di Mušič: tutta la sua produzione è
come in dialogo con quel momento, per contrasto prima e per
svuotamento, in un ritorno più libero, poi. Le immagini della
memoria riemergono dopo essere state accantonate, chiuse negli oltre
200 schizzi di Dachau, evase nelle vedute veneziane, nelle calde
terre senesi; ma c'è anche una preparazione strisciante nelle opere
immediatamente precedenti, come in certi motivi vegetali o in certe
rese del canale della Giudecca, impressionanti per l'intreccio di
tubi sulle chiatte che ricorda i corpi ammassati nel campo di
concentramento.
Mušič
si accorge del valore della sua esperienza, è pronto ad affrontare
di nuovo l'inferno, ha messo tempo e luce e vita nel
mezzo ed ora è consapevole che i ricordi di Dachau sono anche la sua
scorta d'immagini, lo racconta nel sogno del campo sportivo
con le gradinate piene di corpi che all'improvviso svaniscono
lasciandolo sgomento e privo della sua materia3.
Ora
Mušič deve rivivere, deve esternare, deve restituire quelle
agghiaccianti visioni di magrezza e dentature, di intrecci, ossature
e impiccagioni, di completo degrado dell'essere umano ridotto ad un
corpo, consegnato alla morte. Non ci sono decorativismi qui o
allusioni tonali, lo stile resta quello dello schizzo,
dell'immediatezza, della troppa, eccessiva vicinanza con quel brutale
asciugarsi della carne sulle ossa, aprirsi in un ghigno e scolorire.
L'artista
entra a Dachau due volte, la prima fisicamente, durante la guerra, la
seconda con la mente, dopo quasi tre decenni e, scorrendo in
successione i suoi lavori, ci appare come una parentesi, annunciata,
che ha la sua ragione d'essere, affatto insensata nei suoi ritmi di
lenta sedimentazione e poi di urgente manifestazione, ma comunque una
fase, un ciclo tra i cicli legati alla terra, all'acqua, agli
animali, in definitiva alla vita, ed ha il suo senso dato che quei
corpi ammassati sono cenere che torna alla cenere, polvere alla
polvere, dato che anche la morte fa parte del ciclo vitale.
Questo
ritrae Zoran Mušič, questo schizza nei fogli volanti del '44 e poi
riesamina a distanza, dopo aver ritrovato luce, aria e
respiro, non le questioni politiche, non l'antisemitismo, ma
l'infierire dell'uomo sull'uomo, il freddo sopraggiungere della
morte, la riduzione dell'essere umano alla massa corporea, l'assenza
del colore.
La
terza e conclusiva mostra delle grafiche di Zoran Mušič – tutte
provenienti da una collezione privata che ha operato scelte molto
mirate ed ha permesso una triplice esposizione notevolmente
rappresentativa dell'opera dell'artista sloveno – propone proprio
il periodo che si prepara a riaffrontare l'esperienza di reclusione
di Dachau, punta l'attenzione su un momento particolare in cui Mušič
sembra avvicinarsi ad una sensibilità di caratura informale.
Si
parte con i motivi paesaggistici di fine anni '50 che si fanno sempre
più astratti, visioni dall'alto di terre e colture prossime ad una
modernissima land art, coltivazioni decorative, morbide
dissolvenze dovute alla tecnica dell'acquatinta, alternato uso dei
bianchi, dei neri e dei mezzitoni.
Nel
'59 si assiste ad un cambio di prospettiva, ad uno spericolato
avvicinarsi dell'obiettivo, ad un rotare della lente d'ingrandimento,
perdendo qualsiasi linearismo per concentrarsi esclusivamente sulla
macchia: sono terre dalmate maculate, indagate anche con la
litografia ma soprattutto con acqueforti-acquetinte le cui morsure
ben si prestano agli effetti bruciati che fanno pensare a
radiografie, o visioni cellulari al microscopio, che chiamano alla
mente da una parte le combustioni di Burri e dall'altra il Dubuffet
delle Mineralogie. Perciò a ragione si menziona l'informale,
l'informel europeo, la terra che si fa materia nelle sue
componenti più essenziali.
Tra
'60 e '61 la visione torna aerea, si allontana da terra con una lieve
dispersione della macchia verso i bordi e un generarsi centrale di
vuoti e luce bruciata. La sensazione inquietante che ne deriva ancora
una volta si avvicina alla sensibilità dell'informale europeo, mosso
dai lasciti umorali della guerra, ed è in qualche modo scorta di
quanto sta per succedere all'artista, del recupero memoriale ed
emotivo che, dall'estremo anoggettuale dalle Terre brisée,
riparte col figurativo di Noi non siamo gli ultimi.
I
paesaggi maculati degli anni Sessanta sono quella polvere, quella
cenere della terra che tornerà ad essere tale anche nei corpi
disegnati di Dachau, sono una preparazione psicologica e spirituale
ad una nuova e forse liberatoria discesa negli inferi, prima di
potersi dedicare a paesaggi rocciosi e nuove vedute veneziane che
avranno il sapore di un procedimento inverso, di risalita: dalle
masse dei corpi alle masse rocciose, fino a nuove definizioni dei
paesaggi rupestri e lagunari.
Certo
appare lontanissimo ora il Mušič dei Cavallini dalle calde
temperature rosate e aranciate, dai raffinati ori e azzurri o dalle
delicate, sottilissime linee delle prime incisioni, eppure nulla si
perde nell'immaginario dell'artista, tutto fluisce con coerenza da
uno stadio all'altro del suo vissuto, seguendo spontanee
elaborazioni, lasciando intuire quanto sia fondante la percezione
emotiva, l'elemento direttamente esperenziale, ciò che distingue un
ritratto o un paesaggio da una mera illustrazione: “io non cerco
paesaggi o soggetti, credo di averli dentro”.
1Pensando
a Giuseppe Mazzariol che lo definisce “uno dei pittori più
segreti, più difficili e più alti del nostro tempo.”
2
Libro in cartella. Testo di René
de Solier, 7 originali litografie di Zoran Music (5 a piena pagina),
numerate e firmate a matita dall'artista, stampate da Desjobert. Ed.
Cerastico, Milano.
3“Nel
periodo in cui dipingevo il ciclo Non siamo gli ultimi ho avuto uno
strano sogno. Stavo nel mezzo di un campo sportivo. Tutte le tribune
erano occupate da cadaveri seduti l'uno accanto all'altro, tutta
l'arena piena di morti. Non era triste, mi sembrva anzi un grande
tesoro per il mio lavoro. Improvvisamente, come per incanto, tutti i
sedili come se fossero montati su rotelle slittano e spariscono
fuori dal campo assieme ai cadaveri. Mi sono svegliato di colpo
terrorizzato di aver perso il mio bene”.
(ph. prima delle 3 mostre)
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