di Marta Silenzi
ed. Fioroni, 2014
testo in catalogo mostra "Un'idea di bellezza", 25 aprile - 10 maggio 2014, prorogata a luglio 2014
Concilio Europeo dell'Arte
Biennale Giovani Artisti Marchigiani
Venezia, Galleria In Paradiso, Giardini della Biennale
Da anni, da secoli l’accezione di bellezza in campo
artistico non è più quella del Bellori, non è più questione di armonia delle
forme, aderenza ad un ideale classico, contemplazione della Natura, mimesis con
la realtà. Da tempo non si tratta neanche più soltanto di piacevolezza allo
sguardo.
Parliamo di arte contemporanea,
siamo ben oltre tutto questo. Non si tratta più di splendore, magnificenza,
grazia o di incanto, ma di fascino, di attrattiva d’altro genere. Ora la
consapevolezza è che un giudizio di bellezza è soggettivo e – usando le parole
del curatore, Alessandro Piras – su questa soggettività influisce “il cibo
visivo e culturale di cui ci si nutre”.
Nelle Marche – regione centrale
di una penisola che si nutre d’arte sin dalle origini – oggi le esperienze
visive, culturali ed artistiche sono ormai allineate al resto dei tanti
panorami internazionali, la globalizzazione ha eliminato il più delle barriere
almeno a livello di impulsi, condivisioni ed ispirazioni e dove servivano
movimenti e adesioni a manifesti programmatici, oggi basta la consultazione on
line, l’esperienza virtuale da vivere in intima solitudine; ed è così che un
gruppo di emergenti marchigiani si trova ad indagare su una propria sfaccettata
idea di bellezza e figurazione che non ha alcuna caratteristica contingente o
territoriale, ha al contrario un respiro molto ampio, che decisamente sconfina.
In realtà è quasi completamente dispersa un’impronta
marchigiana: non c’è territorio, non c’è terra in queste opere, dietro queste
figure protagoniste di narrazioni metropolitane, interpreti di documentazioni
storiche e di denuncia, prese in vuoti sterili o nell'inquietudine di innocenti
atmosfere; rimane forse più un fil rouge tradizionale e poetico nelle
delicatezze incisorie e nelle stilizzazioni scultoree, una dolcezza intima ed
affettiva tipica di questa terra di mezzo che siamo, con l’eco memoriale di
Licini o Bartolini, sempre impossibili da dimenticare.
“La bellezza salverà il mondo?”,
si chiede il curatore con Dostoevskij, “c’è ancora bisogno di bellezza in
arte?”. Sebbene il termine sia al momento più che mai inflazionato ed anche
abusato, la risposta credo sia ancora sì, un sì che però dev’essere
argomentato, perché la bellezza oggi ha canoni e accezioni più articolati e va
giudicata secondo una pluralità di parametri e misurazioni, nonché all’interno
di più sfere semantiche e contestuali.
Nello scegliere gli artisti il curatore ha tenuto conto
delle opere e della loro “bellezza percepita come l’attimo di intervallo tra
gesto e silenzio”, intendendo dipinti, incisioni e sculture come “frammenti
pervasi del silenzio ipnotico della vita”, ed è un ritorno alla figurazione lo
strumento narrativo prescelto da questi marchigiani per dar voce al loro mondo
interiore, alla loro Weltanschauung, ai loro simbolismi e in definitiva alle
immagini da cui sono abitati.
I pittori, scultori e incisori in
mostra sono tutti tecnicamente molto dotati; perlopiù il loro disegno è forte,
analitico e la resa del dettaglio concorre alla trasmissione d'intere atmosfere
quando non di precisi messaggi. Pur venendo da lontani pregressi, la loro
definizione figurale è altissima e se in alcuni casi essi si concedono di indugiare
nella scelta di tavolozze o pennellate propriamente più pittoriche, la loro
mira generale supera persino la verosimiglianza, raggiunge l’iperrealismo,
arriva al calibro fotografico.
Vale certamente per le
rarefazioni di Marco Luzi, che sulla figura ha incentrato tutta la sua ricerca,
portando avanti una pittura lenta, talvolta incline allo studio anatomico e
luministico dei nudi, talaltra tesa a catturare ritratti anche familiari che si
portano dentro un mondo psicologico carico e difficile, mostrato dalle posture
goffe, dai tagli obliqui, dai fragili equilibri, dagli isolamenti e dai
frequenti non-finito che non permettono a quei soggetti di abbandonarlo del
tutto, restando una questione sospesa, mai risolta, proprio come accade nella
vita. Non ci sono abbellimenti nei soggetti di Luzi, essi sostano, restano in
piedi collocati in un vuoto d'ambiente che li spersonalizza o li associa ad
attributi transitori, dispersi in quella vacuità condivisa.
Vale per i bambini di Francesca
Gentili. Seri, chiusi nel loro mondo di lettere e numeri sullo sfondo, questi
due bambini guardano dritto, con le loro orbite arrossate, e nascondono un
mistero nell'incarnato perlaceo, nella biancheria intima, in quel
gioco-feticcio rimasto un disegno, rimasto innocente. Sono queste due opere più
di altre ad evidenziare un’antitesi tra la grazia estetica ed un’inquietudine
di sottofondo, a tratti sfuggente a tratti
manifesta, ma comunque presente in tutta l’esposizione; c’è infatti nei
due ritratti un’interconnessione audace e possente tra bellezza ed inquietudine
umana: più di un paesaggio, più di una donna, più di un abito o di un gioiello
sono belli i bambini, di quella bellezza pura e inesprimibile, di quella
giovinezza in grado di turbare, di quella sorgente libera e senza filtri che sa
connettersi e comunicare come un adulto non può ed è proprio in questo che più
risalta l’inquietudine, il segreto, la serietà dove dovrebbe esserci il sorriso
spensierato: è il bambino che ha lo ‘shining’ sul triciclo di Stanley Kubrick,
un uomo non desterebbe lo stesso grado di crescente spavento, la stessa
apprensione; è il pensiero strisciante di un abuso o di un abbandono, è quella
bellezza che si fa ferita, mutezza, biancore.
Resta la sensazione sotterranea
di un'accusa affidata a questi ritratti, la stessa delle Pessime pedagogie
di Daniele Pettorossi (parte di un trittico che se non fosse dipinto
sarebbe da Premio Pulitzer). Anche questo artista si mantiene legato al
disegno, sia esso nudo e architettonico nell’olio in seppia che lascia risuonare
il silenzio di Auschwitz, o monocromo e contrastato negli acrilici che
sovrappongono elementi di innocenza (bambini in braccio a padri sorridenti,
carte da parati a fiorellini) a maschere e minacce che hanno il sapore
dell’imminenza e il retrogusto della paura.
Il pittore è chiaramente attratto
dalla fotografia e dalle semantiche di guerra e costrizione, restituite con un
piglio da cronaca dissacratoria, giocando spesso con le titolazioni che, nel
passaggio all’immagine, lasciano sbigottito il fruitore per la possibile ironia
della crudeltà. Nelle ultime realizzazioni di Pettorossi c’è poi una volontà di
mostrare come l’elemento disumano (la maschera antigas) possa raggiungere anche
la situazione giornaliera e domestica, cosa che richiama alla mente ciò che
Hanna Arendt magnificamente sintetizzava come banalità del male.
Il dominio del disegno in Luca
Zampetti è palese e proverbiale.
Per questo artista i termini figurativo e narrativo sono
d’obbligo considerata la progettazione che prefigura cicli e singole opere.
Zampetti è probabilmente l’apoteosi del contemporaneo: si ciba di linguaggi
mediatici e attraverso quell’idioma restituisce immagini completamente
leggibili ed accessibili per un pubblico che siede allo stesso desco ogni
giorno. Le sue femme fatale metropolitane abitano mondi ben lontani dalla
realtà marchigiana, respirano aria internazionale, fumi di città caotiche,
rispondono ad una regia di caratura cinematografica per metterci a parte di
orizzonti che non immaginiamo (ancora ambiguità, seduzione, mistero, maschere)
in cui bellezza e torbido s’intrecciano come nelle trame di James Ellroy. La
particolare scelta mista di tecniche – che tra grafite ed encausto concorrono
ad un disegno pittorico o anche ad una pittura disegnata – è funzionale alla
risonanza narrativa dell’immagine che è come uno scatto di cui si presuppone un
prima ed un dopo, di cui si presuppone un sonoro e un’imminente ripresa del
movimento: la rappresentazione è “bloccata nell’attimo in cui si precisa il
contorno di un’attesa”, scriveva efficacemente Enzo Santese.
Una sezione più lirica della
mostra presenta artisti che hanno saputo tradurre la manualità, una certa
artigianalità dell’arte, l’uso di tecniche antiche in linguaggi moderni e
validi, estendendo il nastro della tradizione artistica marchigiana fino ad
oggi.
È il caso di Manuela Cerolini e
Mauro Mazziero, entrambi provenienti dal restauro, entrambi sperimentatori che
poi hanno scelto l’incisione come mezzo cardinale della loro espressione.
Il disegno inciso sulla lastra
conserva sempre una bellezza classica, definizione certamente adeguata alle
acqueforti di Mazziero, dai tratti sapienti e i dettagli straordinari che
rivelano l’indole attenta e insieme delicata dell’artista, la cui figurazione è
l’unica a permettere una riconoscibilità territoriale, nella composizione di
uomo e natura, mani e terra, volti e colline come all’interno di una mitologia
agreste o di un immaginario onirico. Il suo segno raffinato produce stampe
vibratili, narrative, fiabesche, piacevoli allo sguardo che può muoversi dal
generale al particolare senza perdere d’interesse, spingendosi sempre più in
profondità.
Forse più interessata ad un’attualizzazione della tecnica
calcografica è la Cerolini che con il suo ‘skinning’ trasforma e sorpassa la questione della serialità del
procedimento e ottiene pezzi unici frutto di ‘spellature’, rimaneggiamenti,
frantumazioni ed interventi di vario tipo. La figurazione marcata e intensa, il
dato naturalistico elegiaco, il tratto espressionista indicano una femminilità
forte, consapevole, ed un’attenzione egualmente ripartita tra contenuti e
processo tecnico, mostrando il quale l’artista supera la polemica della
tiratura, esponendo direttamente le lastre pulite e lucidate, prova del segno
unico e originale dell’incisore prima che diventi stampa.
Si lega per sensibilità a questa sezione anche Agostino
Cartuccia, con sculture che animano di armonia essenziale e perfetto equilibrio
i semplici materiali di recupero utilizzati: la pietra, il ferro, la luce. Le ‘filisculture’
di Cartuccia, sono linee sinuose indicanti: terminano con una freccia che punta
e segnala; muovono danze piccole e libere tranne che per gli ancoraggi che le
alzano da terra; sono singole o raddoppiano; brevi attributi possono connotarne
una varietà e forse un qualche antropomorfismo. C’è una poetica del minimo che
a tratti si fa più ironica e a tratti più suggestiva in queste sculture, ma il
sapore che resta è di una ricerca intelligente, docile ed intima, di un
concettualismo calmo e sottile, di una bella poesia.
Abiti e gioielli, formule durevoli di bellezza, chiudono
la mostra con due proposte al femminile.
Gli attimi sfuggenti colti da Arianna Pace nei suoi
dipinti eleganti, dai piccoli formati, dal decorativismo acceso e dalla
pennellata veloce ma restitutiva di una preziosità compiuta, tornano ad esibire
una bellezza evidente nei suoi canoni classici eppure racchiusa in vuoti oscuri
e sommari. Queste dame sono un accenno di tratti e un fruscio d’abiti,
producono riverberi d’eco nella loro fragile solitudine, sorreggono pesi
interiori sotto il ricamo delle stoffe e ci trasportano in mondi memoriali dal
sapore antico, spazi vacui potenzialmente illimiti abitati da presenze, come se
il vero dipinto, il vero soggetto fosse oltre le figure, in quegli ombratili
fondali neri contro cui si stagliano.
Sull’altro versante si muove Marina Mercuri, lavorando
metalli in reti, maglie e labirinti, giocando con un geometrismo popolato e
vivace o con un romanticismo fitomorfico sdrammatizzato, coniugando antiche
perizie e pratiche tradizionali con una freschezza dello sguardo talvolta
infantile talvolta ironica, recuperando una leggerezza ludica, intendendo
l’oggetto prezioso come opera d’arte vivida perché indossata, posseduta e
‘accorpata’ nel senso specifico di avvicinata al corpo, a valorizzare,
adornare, rappresentare e persino narrare chi la indossa. I suoi gioielli sono
piccole sculture in cui si ravvisa il cesello, l’approccio da incisore,
l’unione di una visione giovanile ad una tecnica orafa antica, declinata in un
neoclassicismo di angeli e girali, uno spasso di cuori e stetoscopi e,
soprattutto, un’imagerie zoomorfa pendula a creare una vitale silente simpatia.
Ai nove artisti in mostra il curatore ne aggiunge un
decimo, a rappresentare il fronte della videoarte in questa sua generale ‘idea
di bellezza’. Il video di Claudio Nalli sembra affondare le radici molto in
profondità, in associazioni mentali fluide, pregne e formidabili, scivolando in
immagini dalla bellezza indiscutibile, riportando l’uomo alla natura
terracquea, forte e rafforzata dal sonoro, chiudendo un cerchio – se pensiamo a
tutti i linguaggi espressivi e alle semantiche narrate in mostra –, rilasciando
messaggi e codici seminali, stillando goccia a goccia, un fotogramma alla
volta, visioni e azioni che non hanno bisogno di chiarimenti per essere
definite belle.
Bellezza dunque non è universalità, regola, sicurezza.
Bellezza è oggi espressione sincera dell’io, serietà della ricerca, capacità di
trasmettere una percezione e di destare una riflessione, di stimolare un
riconoscimento tra opera e riguardante. Bellezza è racconto visivo del mondo,
sia esso quello comune o quello interiore, sia esso il macrocosmo o uno dei
tanti microcosmi che lo compongono e si relazionano. Bellezza è genio,
intelligenza, saper interpretare quale sia la giusta visione da cogliere e
realizzare per andare a toccare delle corde, per farle vibrare. Bellezza è in
definitiva ciò che risiede in ogni immagine foriera d’emozione.
presentazione
Galleria In Paradiso, Venezia
25 aprile 2014
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