di Marta Silenzi
ed. Centofiorini, 2014
testo in catalogo mostra "La trama della pittura - Forgioli Lavagnino Savinio"
Galleria Centofiorini 22 giugno - 31 agosto 2014
Dipingere. Scegliere la tela o
altro tessuto, magari una tavola, preparare il supporto. Approntare il disegno
o agire direttamente di pennello, intingendo nell’olio, trovando il colore, riempiendo
gli spazi, stendendo campiture. Cercare le forme, le pienezze, le rotondità,
accenni di rovine, di mondi dorati; risalire una vetta, discendere una valle,
lasciar fare, senza troppo controllo; oppure inseguire un’idea, farla
sedimentare nella pittura, uno strato sull’altro, chiamando in superficie
tracce di memoria e segni del tempo.
Ci sono molti modi di dipingere,
molte vie di condurre una pittura. I tre artisti qui considerati, nati da un
contesto storico artistico comune, sebbene geograficamente distribuiti tra
l’Italia del nord e quella centrale e cresciuti all’interno di personali e
distinti ambienti formativi, trovano ognuno un differente ductus, di qualità
altissima, attraverso il quale mettere a fuoco i propri motivi ed esprimere le
proprie immagini narrative, questo anche quando la figurazione si disperde in
funzione del puro atto pittorico.
Attilio Forgioli, Pierluigi
Lavagnino e Ruggero Savinio sono coetanei, non conterranei ma si conoscono e si
frequentano, vivono il loro tempo ciascuno identificando e perseguendo la
propria visione da restituire, non ci sono consonanze nelle loro ispirazioni,
nelle concezioni e costruzioni delle opere, nella sensibilità pittorica, ma
tutti tendono ad una sorta di “volontà pittorica”, ad un rispetto per l’azione
che traduce il pensiero in immagine, con le sue componenti ideative, empatiche
e manuali che la rendono un atto primitivo d’espressione, connaturato all’uomo,
elevato dal grado intellettuale dell’artista e filtrato da tutto il pregresso
di storia dell’arte vissuto e respirato.
Forgioli è di Salò, è un uomo di
montagna, conosce l’esperienza della Repubblica Sociale, vuole un’arte vicina
agli uomini, alla rudezza di quei tempi, alla rudezza della terra. Lavagnino è
ligure, i suoi occhi vedono e vivono il mare, l’acqua, le piante, le superfici
increspate e mosse dal vento, le fronde pendule, le varietà tonali dei
verde-azzurri. Savinio nasce a Torino ma è figlio di Roma, e di Parigi e della
Grecia, l’arte e la cultura più alte innervano il suo passato, qualcosa da cui
prendere avvio ma anche da cui affrancarsi per cercare una via autonoma. Non potrebbero essere più diversi eppure la
pittura li unisce nelle loro spiccate individualità: non a caso Arturo Carlo Quintavalle
li enumera nella collettiva L’Opera Dipinta 1960-80 alle Scuderie in
Pilotta di Parma nel 1982, tra gli artisti che – in tempi di concettualismo,
pop e performing art – stanno facendo dell’esperienza pittorica una scelta
etica e una memorabile forma espressiva.
Tre pittori. Artisti per cui sono
importanti gli aspetti naturalistici (in termini di atmosfera, luce e dominanti
cromatiche in Lavagnino; di definizione paesaggistica e bagliore diurno o
notturno in Savinio; di scelta dettagliata e sommaria del soggetto/oggetto in
Forgioli) e memoriali: se Forgioli ritrae veloce e compulsivo tutto il suo
mondo, la frutta che mangia, i falchi che avvista, le montagne che scala, gli
scarponi che indossa per scalare quelle montagne, senza dimenticare tutti i
volti mossi e chiazzati degli amici che lo circondano, Lavagnino costruisce
strato sopra strato una pittura spessa e materica che si somma come fanno i
ricordi, che scava nell’Io, a partire dall’esperienza sensoriale per arrivare
alla rievocazione, un tipo di immaginazione riproduttiva e creativa insieme;
Savinio è poi pittore (e anche scrittore) del ricordo per eccellenza, della
memoria antica, invocata da mondi mitologici e terre lontane, rovine ed età
dell’oro, come di passati domestici e personali, intimità familiari e
malinconiche di stanze, balconi e viste sul mare in cui tutto sembra risuonare
di vento e voci ormai distanti.
La loro pittura è intensa e
diversissima. Attilio Forgioli si muove su tele scure, spesso di grandi
dimensioni, con una mano forte che traccia solchi di una libera figurazione,
data per accenni, su cui interviene con una pittura sintetica che eccede gli
argini e supporta un cromatismo spesso vivace (i fucsia, i gialli, gli azzurri)
anche se poi la tela stessa e la magrezza del colore utilizzato tendono a
smorzarlo. Il maggior carico dei primi dipinti nel tempo si asciuga, rivela la
tramatura del supporto, cede alle sgocciolature, come se l’artista si
sbrigasse, come fosse tutto un espediente per riuscire a cogliere qualcosa di
sfuggente, l’essenza vitale che attraversa un frutto succoso, un volpe che
scappa, un’eco nel paesaggio, e la tendenza è a fare grande, per vedere bene,
per “sentire l’individualità di ogni elemento, le innumerevoli venature e
screziature di cui s’intesse, l’irregolarità e i trasalimenti che lo compongono”
– scrive Elena Pontiggia.
Questo vale anche per i ritratti,
condotti per guizzi e movimenti più che per linee e volumetrie, non una ma
molte espressioni, così da cogliere e mostrare il fremito attivo che abita
l’uomo più che i suoi lineamenti, le sue bellezze fuggevoli, esattamente come
vale per una montagna scossa dal vento e attraversata dai percorsi in salita e
discesa calpestati ripetutamente dagli scalatori e dai camminatori in
differenti condizioni di luce, o per le ali di un falco che vibrano e spostano
l’aria e si alzano in volo.
A Forgioli tante cose non
importano: i fondali non sono dipinti, i soggetti quasi mai contestualizzati,
la tavolozza è generalmente la stessa, con dominanti azzurre o fucsia, talvolta
grigie, giocate più sui contrasti che sugli accordi. L’effetto è aspro e
genuino, come l’artista, come l’uomo.
È agli antipodi di Lavagnino, che
recepisce e interiorizza l’Informel europeo, le hâute pate di Fautrier, lavora
la tela per strati ricchi e spessi, costruisce l’opera come un muro che si
scrosta, che lascia affiorare sottoscritture e cancellazioni, che vive di luce
naturale, impressa nell’occhio in ammirazione dell’acqua, dei salici, dei
cieli, una luce dorata che scalda il ventaglio timbrico verde-azzurro quando
l’immagine è richiamata alla mente nello studio e s’iscrive nel quadro per
mezzo del colore. Tuttavia anche Pierluigi Lavagnino, come Forgioli, tenta di
afferrare l’inafferrabile: mentre l’uno fa svelto per acciuffare l’alito vitale
che attraversa le cose, l’altro rallenta per vincere lo scorrere del tempo e
provoca fratture sulle superfici per esprimere un accadimento che non è
possibile raccontare.
Ruggero Savinio non rinuncia alla
figurazione ne’ all’iletismo, non oppone materia e forma, le avvicina in
un’approssimazione in cui risiede la pittura: un sottile equilibrio tremulo che
non sceglie purismi materici come non sceglie invadenze iconologiche, dimora
invece in quel campo docile e ibrido che non ha bisogno di definizioni per
essere riconosciuto, tanto è fatto della sostanza della sua esperienza
intellettuale ed emotiva. Savinio lavora veloce e persino sommario in certi
riempimenti per concedersi maggiori indugi in determinati momenti del quadro,
concepito come una scena, narrativo ma anche evocativo. Il repertorio cromatico
è vasto, tendente al bagliore, alle luci accese nella natura, spesso merito di
supporti inconsueti come il velluto, fondali scuri su cui la sua pittura
vibratile arde in fiaccole diffuse, memori di un puntinismo funzionale alle
evocazioni atmosferiche, spesso sedi di apparizioni. Egli stesso scrive: “Che
cosa significa essere visionario, se non rimanere in ascolto, mantenere desta
l’attenzione per riconoscere l’altro, se appare?”.
In generale nei dipinti di
Savinio si può ravvisare una figurazione classica, nelle pose, nelle
composizioni d’insieme, che unisce la familiare scuola dechirichiana ad una
poetica meno monumentale, più intimistica, frequentemente domestica ma pervasa di un’eleganza, di una
delicatezza che rispecchiano molto l’indole dell’artista tendente a velare di
malinconia ogni cosa, come a proteggerla in una carezza, continuando negli anni
a percepire la pittura come la prima volta: “come un proliferare d’immagini da
un’ombra crepuscolare, una presenza fragile pronta a riaffondare nel grembo
notturno che l’ha generata”.
Questi pittori sono
contemporanei, le loro vicende artistiche partono dagli anni Cinquanta, ognuno
avvia il suo cammino indipendente e prolifico, ma quello di Pierluigi Lavagnino
si arresta prematuramente nel 1999, lasciando un’interruzione nello svolgimento
di una produzione coerente e incredibilmente sensibile, dotata di qualità
tattili, visive ed emozionali, peculiarità riconosciutegli dagli amici Forgioli
e Savinio e, sebbene diversamente percepite, anche a loro completamente
attribuibili, ecco perché credo sia possibile estendere all’intero trio e alle
intenzioni di questa mostra ciò che Lavagnino scrive un anno prima della morte,
conscio che la pittura sia ancora la risposta, che attendere nella tensione di un
sussulto da afferrare e svolgere sulla tela sia il giusto linguaggio, il giusto
codice, il proprio verbo, l’ordito e la trama:
“Penso, da qualche tempo, che
quello che stiamo attraversando non sia un periodo propizio alla pittura. Anzi,
in un certo senso sembra quasi che da parte di molti vi sia la volontà di
metterla al bando, di esiliarla. Un affollarsi di schieramenti, di ‘nuovi
arrivi’ cercano di metterla in un angolo e di farla apparire ormai superata. I
vari maîtres à penser privilegiano installazioni, progettualità, video,
computer (…) Vi sono periodi di pausa nei quali la pittura sembra volersi
nascondere, mimetizzarsi per lasciare spazio, o meglio dare corda alle varie
retoriche che possono assumere le vesti più svariate (…) ma è proprio allora, quando
la pittura si ritrae dalla mischia, che essa diventa più libera, ancora più
efficace. Nel suo silenzio si rivitalizza e sottentra poi rapida, con la sua
lunga ombra, a rioccupare il suo luogo primario. Penso anche alla strada lunga,
irta di ostacoli, da superare, prima che qualche rara volta accada che la
pittura divenga visione. Penso alle cadute di tensione che frenano ed a volte
arrestano il flusso naturale del lavoro: penso ancora ai quadri distrutti, alla
lotta ingaggiata per liberarne la Pittura, prima imprigionata nelle mille
impasses della fatica. Certo, io la pittura non l’ho mai considerata una pausa
ludica, né un rituale per abbellirmi la vita, bensì il mezzo per dare una
forma, un senso alla vita stessa. E così la pittura è diventata, per me, un
modo di essere, il tentativo di respirare in un mondo sempre più asfittico.
Alfine è lei, la pittura, lo strumento attraverso il quale tento di chiarire la
mia visione, in un’aspirazione a cogliere il profondo, essenza dell’immagine,
non attingendoli nell’arido pensiero concettuale.”
Qui la presentazione video della mostra