L'opera in nero
di Marta Silenzi
ed. Il Centofiorini, novembre 2012
testo di presentazione della mostra omonima
Galleria Centofiorini, 9 dic 2012 - 13 gen 2013
Un tramonto
uno squarcio
acceso buca
la cupa
nuvolaglia e i bassi
lembi calano
sui monti
ora, le nubi e
le creste
vestono le
stesse ombre
così il valico
viola
e il
contrafforte turchino
sono un bruno
mantello
l’ansiosa
vista in cammino
in quell’oltre
inatteso
si ferma, né
aspetta il disvelo
guarda
l’occhio di fronte
mutarsi in
incandescenti colori
e muti fuochi
celesti
aprirsi in
varchi ulteriori
dentro la
scura cortina
pare alla
finestra la notte
Eugenio De Signoribus
ottobre 2012
Il 1982 – quando l’esplorazione
morfologica di Nino Ricci era ancora impegnata in elaborazioni geometriche di
volumi e moduli dominanti sopra sfondi tono su tono, sospesi nello spazio,
sfaccettati nei pieni e nei vuoti, quasi indicando l’impressione di una rotazione
– era l’anno in cui un fatto preciso s’insinuava nell’indagine
cromatico-segnica di fine razionalismo ingegneristico-scenografico, per
condurre l’artista al suo approdo figurale, come verso un’immagine totemica che
non lo avrebbe più lasciato.
In precedenza c’era stata una suggestione naturalistica,
mista a costruzioni di piani e linee che univano il segno ed una volontà
grafica ad una sensibilità cromatica e poetico-giocosa alla Paul Klee (N.991 e N.998 del 1958, N.997 del
1959); c’era stato l’incontro con le haute pâte di Fautrier, la cui
ispirazione di trama materica stratificata andava a sommarsi alla tavolozza di
Ricci già scelta, già estremamente delicata e illuminata da tocchi di
evanescenza, come se le tinte fossero dotate di luce propria, irradiata dietro
gli effetti tattili di materiali granulosi come il semolino (N.999, N.1021, N. 1026, tutti
del 1962). Poi, dagli anni ’70 aveva preso piede un discorso modulare, di
elementi squadrati, linee diritte e taglienti, angoli e punte, regoli e cubi,
prima compresi in perimetri e iscritti in ellissi di sfondi monocromi, poi
produttori di ombre entro piani ed ambienti, sempre più diretti verso atmosfere
metafisiche di stampo morandiano, ma più per la silenziosità gravida e per i
toni dolci e freddi che non per una questione di natura morta mai affrontata
veramente.
Nel 1982 era avvenuto qualcosa.
Nino Ricci, in viaggio a Praga, città ancora sotto il regime comunista,
visitava (su suggerimento del critico Flaminio Gualdoni) il cimitero ebraico,
allora ancora difficilmente aperto al pubblico ma visibile da una finestra del
vicino Museo delle arti decorative; un caso fortuito volle che quel giorno il
cimitero mostrasse un’esposizione di disegni dei bambini provenienti dai lager
nazisti, così il pittore poté accedere a quello scenario, oggi noto, di uno dei
più antichi luoghi di culto ebraici d’Europa.
Il cimitero, fondato nel 1439,
apparve a Ricci nel suggestivo e malinconico aspetto di unica area di sepoltura
riservata agli ebrei di Praga che quindi avevano rimediato alla mancanza di
spazio con la sovrapposizione delle tombe: alcuni punti del terreno erano e
sono sovrapposti fino a nove strati di diverse sepolture, con un risultato di
terra ammonticchiata e cosparsa di lapidi accostate, piantate con semplicità,
secondo il culto aniconico ebraico, ma cariche di simbologia, in un luogo che
l’occupazione tedesca aveva deciso di non distruggere “per lasciarlo a
testimonianza di un popolo estinto”.
Ricci subì la fascinazione del
cimitero ebraico non tanto a livello emotivo, quanto per la visione dei marmi e
delle arenarie ancora oggi così stretti, come monoliti che si moltiplicano, si
addossano e si appoggiano, si fanno corpo comune; le cuspidi e i tagli netti
delle pietre che coprivano e ombreggiavano somigliavano tanto alle sue
composizioni ma prive di ordine e razionalismo: le sovrapposizioni avevano
infatti provocato inclinazioni, dissesti e punti d’appoggio su cui poi si era
depositato il tempo conferendo al tutto un alone di rovina – seppur mortuaria –
decisamente carica di vissuto e di storia.
La folgorazione della visione non
è stata subito messa a fuoco ma nell’andare della sua indagine pittorica e
compositiva le orchestrazioni figurali ricciane hanno iniziato a farsi meno
rigide e le forme hanno preso l’aspetto di pietre tagliate per l’altezza, di
rocce, menhir sagomati, approssimati, ripetuti, con grande potenziale per lo
studio di ombre e chiaroscuri che è forse la componente principale delle opere
dell’artista maceratese. La trasformazione delle forme geometriche in
rovine-lapidi è arrivata autonoma e col tempo, l’autocoscienza è giunta a
posteriori, per poi disperdersi e continuare una ricerca indipendente che
tuttora si spinge oltre il significato della forma.
Così le opere degli anni Novanta
sono gruppi scultorei dipinti che conservano una qualità naturalistica di
erosione, inscenati entro palchi silenziosi e intensamente atmosferici, perché
pulviscolare è la tessitura pittorica (con un tremolio del colore alla Seurat pur
senza arrivare al puntinismo) e naturali sono i tagli di luce talvolta laterali
che allungano le ombre e rafforzano l’effetto di bassorilievo e quindi di
classicità dell’immagine.
A questo risultato Ricci arriva
anche con lo studio, effettivamente plastico, di creazioni in gesso e in
cartapesta che lo aiutano nell’individuazione del sottile e affascinante gioco
chiaroscurale della sua pittura, soprattutto quando reso nella gamma, a lui
cara, dei colori pastello. I rosa, gli amaranto, i pervinca, sono tinte
spiegate e disposte sulle sagome-rovine come teli e sottoposte a continue
delicatissime velature, indagate nelle più estreme gradazioni tonali, su sfondi
a contrasto o più spesso accordati, conferendo al suo lavoro una caratura
classica e modernissima al contempo.
Ciò che stupisce è la
raffinatezza, l’eleganza tenue d’imponenza culturale e levità poetica
perfettamente corrispondenti alla mitezza caratteriale del pittore, ai suoi
gesti attenti e cadenzati, così come le tinte cerulee richiamano la bella trasparenza
del suo sguardo.
Le cartapeste segnalano anche la
profonda conoscenza delle carte da parte di Nino Ricci, conoscenza e amore
corrisposto, perché la sua pittura sembra nata per legarsi intensamente alla
tramatura della carta fatta a mano, con risultati magnifici nelle tempere e
negli acquerelli.
Non è stata casuale la sua lunga
collaborazione con le cartiere di Fabriano, ma certo il suo rapporto con la
carta è iniziato molto prima, quando ancora studente è stato introdotto alle
tecniche incisorie presso la Scuola del Libro di Urbino, sotto l’egida di
Mainini, Castellani e Bruscaglia.
Ciò che avviene in termini di
ombreggiatura e distribuzione chiaroscurale nei dipinti, attraverso il colore,
non si disperde, anzi, aumenta ovviamente d’intensità nelle incisioni, dove il
bianco e nero permette una lettura evidente di questo elemento fondamentale
dell’opera ricciana.
Le acqueforti e le acquetinte sono
espressioni che l’artista lega a numerose pubblicazioni, come commento
immaginifico di produzioni poetiche ad esempio di Eugenio De Signoribus o
Leonardo Sinisgalli, talvolta spingendosi fino alle tecniche meno esplorate
della maniera a matita (una variante della vernice molle) o della stampa a
secco, con esiti di rilievo sorprendentemente ricercati.
Quindi, tra tanto interminabile
colore, di una qualità quasi femminile tanta è la sua delicatezza, ecco il
nero. Tuttavia persino il nero è lieve nei lavori di Nino Ricci, le sue
sfumature, le digradazioni sono pacate e sublimi, si mostrano docili e sagge
come i suoi blocchi erosi o gli iceberg ghiacciati che stanno da tempo immemore
e sanno raccontare storie stratificate di luci ed ombre trascorrenti e
variabili all’infinito.
“Il nero è uscito fuori
all’improvviso” dice il pittore parlando dei suoi inediti a carboncino degli
ultimi tempi, e senza che ci sia stata un’interruzione del colore, perché la
sua casa-atelier vede più opere contemporaneamente al cavalletto: gli oli
rosati di varie dimensioni e questa nuova produzione di carboni su carta
pregiata, lavorati, ritagliati e poi applicati a nuovi supporti cartacei. La
tramatura è spessa, granulosa, e l’uso sovrapposto di carbone naturale, pasta
di polvere di carbone e carbone vegetale spolverato a pennello per riempire i
vuoti della grana, conferiscono alle sagome un carattere nuovo e antico al
contempo, prezioso, profondo.
Il nero dunque arriva quasi
inconscio eppure l’impressione è che ci siano sempre stati quei passaggi
d’ombra, quelle dimensioni notturne non prive di luminosità lunare e
splendente; essi appaiono come un primordio che finalmente esce allo scoperto
dopo l’attesa di questa placida maturità, e giunge a prendere la scena con
solenne e silente importanza, ma senza mai perdere la propria gentilezza.
Galleria Centofiorini
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