Cose.
Simboli-oggetti di uso comune, ciotole, sedie. Cose evocate,
ripescate nella fluttuante memoria, comparse sui toni bruniti, come
elemento disordinato e poetico nell'ordine organizzato dello spazio.
Toni bassi e pacati, intimità diffusa di accadimenti, pittura di
velature, collage a palinsesto, ocra, bianchi, bitume. Sogni ed
inquietudini forse, libertà sempre, della pennellata, del segno,
dell'immaginazione produttiva, della percezione all'erta. Il pittore
nudo di fronte a se stesso, al suo mondo interiore e di fronte alla
pittura che è verbo espressivo, è lingua che parla, che assorbe e
restituisce con una volontà propria, catalizzatrice del circostante
attraverso il corpo-mente dell'artista e creatrice attraverso la sua
mano. C'è spazio per tutto. Non c'è spazio per nient'altro.
Mirco
Baricchi (una k spuntata per gioco nei cataloghi al posto della c),
si aggira tra gli anni Novanta ed il primo decennio del 2000 in
queste atmosfere piene di apparizioni, di frammenti, di evocazioni,
senza intenti narrativi, restando in ascolto dell'impercettibile,
come un medium fa con i fantasmi, dipingendo una sua imagerie,
un suo personale sentire, sensibile alle influenze dei suoi contesti
e del suo tempo, sì, ma senza particolari debiti, individualista,
fedele al suo pennello, a ciò che accade nel suo studio spezzino,
semmai alle esperienze in Messico e al gusto per le sfumature che gli
hanno lasciato. È attratto dalle tecniche miste, non si pone limiti,
si apre a tutto quello che la sua pittura chiede, a tutto quello che
la sua pittura porta.
Dal 2008
inizia la collaborazione con Cardelli & Fontana di Sarzana e
tutto quanto si aggira nei suoi quadri fino a quel momento non si
perde, non si perde mai a dirla tutta, e si esprime sulle tele di una
mostra che prende il titolo di Cloudy, un suono dolce inglese
scelto perchè qualcuno di vicino e con semplicità pone l'attenzione
su qualcosa, nelle tele, che potrebbe anche essere figurale, un
orizzonte, un cielo nuvoloso, che magari l'artista aveva dentro ed è
emerso con temperamento automatico, lasciandosi scoprire a
posteriori, ed ecco che parte un apprezzamento per le nuvole ed un
primo avvicinarsi ad elementi naturali, atmosferici, per caso oppure
no.
Arboree,
tramonti, piogge e nuvole, terranei sono soltanto alcune delle
indicazioni naturalistiche che Baricchi lascia come sedimenti, come
sassolini lungo un cammino complesso, giocato su toni scuri e
bronzati, grigio-azzurri notturni, velature e sgocciolature in spazi
bi o tripartiti in cui avvengono accadimenti e apparizioni giocose,
le cose, appunto, che tornano e torneranno sempre, conigli e radici,
culle, lettini appena abbozzati figli di piogge e temporali,
frammenti di frasi e girotondi, parole in corsivo, lettere sospese,
stivali, la poetica del muro, la casualità del dripping ed un
gusto generale che raccorda e sa mettere tutto in perfetta armonia.
È un
momento propizio, catalitico, la nascita del legame con la galleria
di Sarzana, il passaggio da uno studio diviso per stanze ad un open
space che gli permette di entrare nei quadri come fossero scene,
in contatto costante, in colloquio continuo. La bellezza della mostra
e della produzione di questo periodo si riflette anche nel catalogo
ed in tutti quelli che Baricchi realizza in seguito con Cardelli &
Fontana.
M.S. Ho
amato molto certi tuoi cataloghi, la scelta di inserire foto
d'insieme degli allestimenti, foto in studio come una sorta di making
of.
Quanta
parte ha Mirko Baricchi nella realizzazione dei cataloghi?
M.B. Adoro
la carta stampata. Fin da bambino. E subisco il fascino della grafica
in generale, ma
quella
tedesca e scandinava mi hanno sedotto. I miei cataloghi sono il
frutto di un lavoro a quattro
mani con
il mio gallerista di Sarzana, Galleria Cardelli & Fontana.
Ci si
conosce da molto tempo e c'è una sorta di empatia, una
predisposizione per l’eleganza austera di certi libri anni 70. Il
libro catalogo deve in qualche modo informare e intrattenere con dosi
funzionali di didascalie. I luoghi della lavorazione o le
installation views sono a mio avviso molto illuminanti, oltre che
essenziali nel ritmo di un racconto.
È
questo anche il momento in cui si fa più stretto, sebbene in maniera
del tutto spontanea, il focus sulla Natura.
Nel
2010 Mirco Baricchi realizza una mostra per la Galerìa Barcelona, di
Barcellona appunto, che prende il nome di De Rerum ed è come
un discorso ininterrotto da Cloudy, sono atmosfere similari ma
non identiche, qualcosa va lentamente schiarendosi a volte, i bianchi
sono bagliori racchiusi nel buio, conigli-fantasmi dall'animo
arboreo, epifanie una dentro l'altra, le cose ancora, file e file di
banchetti, conigli saltellanti e pinocchi e, con le cose, ramoscelli
ed arbusti, lande orizzontali e parallele di bianche spiagge e
pioggia mista, come dimensioni a confine che tendono a parziali
sovrapposizioni: si ha l'impressione costante di assistere a prodigi
impalpabili, magie del ricordo. Quello a cui assistiamo è
l'inscenarsi del mondo di Mirco Baricchi, poetico, intimo,
circostante, che non si ritrae, anzi, che accoglie ogni elemento che
va a bussare alla sua porta, restituendo sensazioni, gesti, suoni,
odori, tutto ciò che avviene tra tela e pennello, tra uomo e
supporto, qualcosa che assume forme diverse per ogni osservatore.
Nessuna interpretazione sarà mai definitiva, l'arte è un'intuizione
difficile da tradurre a parole, si può cercare di evocare ma un
mezzo non verbale non lo si afferra mai del tutto e in fondo ciò che
conta è la realizzazione, il produrre, lo staresene lì con matite,
carboncini, pennelli e colori: un retino per catturare le farfalle,
il terreno che calpesta il pellegrino. (...)





